SOCIETÀ

Sindaca, ingegnera, avvocata: è solo questione di grammatica

“Per me quello che conta è il talento e la preparazione con cui si svolge un determinato lavoro. Le professioni hanno un nome preciso e nel mio caso è ‘direttore d’orchestra’”. Il 5 marzo 2021, durante il festival di Sanremo, Beatrice Venezi rispondeva in questo modo al presentatore che le chiedeva se preferisse essere chiamata direttore o direttrice. La questione si ripresenta agli onori della cronaca con una certa sistematicità, raggiungendo talora esiti paradossali. Solo pochi mesi fa il senatore della Lega Manfredi Potenti avanzava una proposta di legge che, stando alla bozza visionata da AdnKronos, mirava a vietare negli atti pubblici il “genere femminile per neologismi applicati ai titoli istituzionali dello Stato, ai gradi militari, ai titoli professionali, alle onorificenze, e agli incarichi individuati da atti aventi forza di legge”. Al bando, in sostanza, termini come sindaca, avvocata, ministra. Le reazioni non tardarono ad arrivare e la proposta fu ritirata. I due episodi citati si inseriscono in un dibattito – quello che vede da un lato i sostenitori e dall’altro i detrattori della declinazione al femminile dei nomi di professione e di carica – che in realtà dal punto di vista strettamente linguistico non avrebbe ragion d’essere

Sia l’affermazione di Venezi che la bozza di legge riportata contengono affermazioni che non rispondono esattamente al vero: le professioni non hanno un nome immutabilmente al maschile e la loro femminilizzazione è attestata da lungo tempo nella lingua italiana. Non si tratta dunque di neologismi o di rivendicazioni recenti, ma di vocaboli poco usati, perché le donne fino a poco tempo fa raramente ricoprivano ruoli o cariche di prestigio. “In passato sono numerosissime le attestazioni al femminile – sottolinea Michele Cortelazzo, accademico della Crusca e professore emerito di linguistica italiana –; il problema si è posto da quando le donne hanno cominciato a erodere, anche se in maniera molto limitata, spazi di potere che erano sempre stati maschili”.

Il femminile esiste e da molto

Se ci si guarda alle spalle le testimonianze sono numerose. La forma direttrice d’orchestra era usata già nell’Ottocento. Secondo quanto documenta Cortelazzo, in un saggio dal titolo Davvero “le professioni hanno un nome preciso” e non vengono declinate per genere?, il termine viene impiegato per esempio nel 1851 nel periodico Il Pirata. Giornale di letteratura, belle arti e teatri; nel 1874 nella commedia Apparenza inganna di Isnardo Sartorio; ma anche in fonti ufficiali come il Censimento generale della popolazione del 1901 in cui la professione, insieme ad altre, viene citata anche al femminile. 

Stesse considerazioni valgono per sindaca. In un secondo contributo in fase di pubblicazione, titolato La femminilizzazione dei nomi di professione e di cariche. Un problema recente?, il docente spiega che la forma è attestata fin dal Trecento, in un volgarizzamento toscano delle fiabe di Esopo, sebbene con un significato diverso da quello attuale. In epoca moderna viene usato nel senso di “colei che rivede i conti” specie nei monasteri e dalla fine del secolo scorso sta ad indicare una donna a capo dell’amministrazione comunale. 

Le attestazioni sono molte altre. Di ministra si trova traccia già nella prima edizione del Vocabolario degli accademici della Crusca del 1612, ma già dal Trecento il termine era usato con vari significati. A chiunque sia cattolico (ma non solo) non sarà sfuggito che una delle preghiere più recitate, il Salve Regina, contiene l’appellativo “avvocata nostra” rivolto alla Madonna, nel senso di patrocinatrice dell’essere umano davanti a Dio. E già dal XIV secolo il termine viene usato per indicare una donna che esercita la professione di avvocato. Vogliamo continuare? Ingegnera è una voce contenuta nel Nuovo dizionario italiano-francese di Francesco D’Alberti di Villanuova nel 1772. Avvicinandoci ai nostri giorni, ricordiamo che il ben noto dizionario Zingarelli ormai da quasi 30 anni riporta nomi professionali, un tempo indicati solo al maschile, anche con la forma femminile: nel 1995 le voci erano già 800.  

Se le parole esistono dunque, perché non usarle? In Italia uno dei primi articolati contributi sul tema è il volume dal titolo Il sessismo nella lingua italiana di Alma Sabatini, pubblicato nel 1987 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri: nel terzo capitolo in particolare (Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana), si forniscono esempi di forme linguistiche da evitare e di altre con cui sostituirle, e si esorta a “evitare di usare il maschile di nomi di mestieri, professioni, cariche, per segnalare posizioni di prestigio quando il femminile esiste ed è regolarmente usato solo per lavori gerarchicamente inferiori e tradizionalmente collegati al ruolo femminile”. 

Perché non si usa?

“Dal punto di vista strettamente linguistico – osserva Cortelazzo – queste sono scelte assolutamente naturali. Le ragioni della resistenza all’uso del femminile per designare donne che svolgono professioni di prestigio o che ricoprono ruoli pubblici di rilievo sono certamente tutte di tipo socio-linguistico, perché dal punto di vista grammaticale il problema semplicemente non dovrebbe porsi. Una di queste ragioni è da ricercarsi in un maschilismo imperante”.  Che talora si ripercuote pure sulle scelte linguistiche delle donne. In contesto forense per esempio, ma non solo, alcune rifiutano la denominazione al femminile pretendendo di essere chiamate l’avvocato, il giudice: in questo caso sono le donne stesse a sentirsi svilite dalla femminilizzazione del termine, quasi che il titolo professionale maschile avesse un peso maggiore. E ciò racconta molto dell’autopercezione della donna in questi ambiti professionali, anche secondo la linguista Vera Gheno che approfondisce il tema nel volume Femminili singolari (Effequ 2019).

Un’altra delle obiezioni sollevate è la cacofonia dei nomi di professione declinati al femminile (“Non si possono sentire”, “Suonano male”): “L’impressione, in realtà, è dovuta al fatto che finora questi termini sono stati scarsamente utilizzati. Si prenda medica: si è più spesso abituati a dire dottoressa, è dunque naturale che la prima forma appaia insolita”. 

Ancora, c’è chi utilizza il maschile sostenendo di riferirsi in astratto alla carica o al ruolo professionale e non alla persona. In questo caso, secondo Cortelazzo, si può accettare l’impiego del maschile non marcato, ma qualora si parli di una donna concreta che sta ricoprendo quella carica o quel ruolo, la scelta non è corretta. 

Vien da chiedersi inoltre se la formazione personale, la conoscenza più o meno approfondita della grammatica, incida sulle scelte lessicali di ognuno. “Non ho una risposta documentata – argomenta il docente –, ma la mia impressione è che la formazione non c’entri, ma anzi a volte tenda a incancrenire abitudini, soprattutto in ambito professionale. Usare il femminile a fronte di un referente femminile è una regola fondamentale della lingua italiana, e a nessuno verrebbe in mente di fare diversamente, se non entrassero in gioco stereotipi di genere o di tipo sociale. In ambienti professionali è più facile essere abituati a chiamare anche le donne con l'appellativo maschile, giungendo al paradosso che chi è più preparato più è zavorrato dalla tradizione: credo che se facessimo un'indagine avremmo dei risultati non facilmente prevedibili”. 

“Una questione di contrapposizione politica”

Secondo Cortelazzo le polemiche intorno alla femminilizzazione dei nomi di professione hanno anche spiegazioni di altro tipo. “Purtroppo la pura applicazione di una regola grammaticale è diventata una questione di contrapposizione politica. Esistono in realtà terreni molto più minati e difficili da affrontare: per esempio, come rivolgersi a un pubblico composito, come definire una figura professionale quando non si sa da chi è ricoperta, come definire persone che non si riconoscono in una bipartizione binaria dei generi. Ritengo che questi siano problemi oggettivi, che a fatica trovano una soluzione nella lingua per come è costruita: le lingue sono sistemi che si formano nel corso dei secoli e le strutture grammaticali cambiano molto lentamente”. 

Conclude il linguista: “I problemi esistono, ma quello della declinazione al femminile dei nomi di professione dal punto di vista linguistico non è un problema. Purtroppo la femminilizzazione è diventata quasi una bandiera della sinistra, la non-femminilizzazione una bandiera della destra: anche se gli usi non sono così nettamente bipartiti, l'idea lo è. Chi chiede di essere chiamata al femminile viene additata come femminista o di sinistra, categorie che invece non c’entrano nulla. La distinzione piuttosto è tra chi conosce la grammatica dell’italiano e la applica coerentemente e chi invece si fa trascinare da spinte extra-linguistiche in una direzione che è possibile, perché comunque la lingua lo permette, ma non è quella più naturale”.  

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