SCIENZA E RICERCA
Luci ed ombre sulla "peer review" delle riviste scientifiche, non solo Open Access
“Luci e ombre nelle riviste open access”? O forse sarebbe meglio dire “Molte ombre e poche luci sulla peer review delle riviste scientifiche, sia OA che non-OA”? I risultati dell’inchiesta di John Bohannon pubblicati sulla prestigiosa rivista Science sotto il titolo “Chi ha paura della peer-review?” hanno gettato grande scompiglio nelle liste di discussione internazionali sull’Open Access, nei blog che si occupano di comunicazione scientifica e soprattutto tra i professionisti dell’informazione, generando una miriade di articoli a catena più o meno critici. Anche in Italia il dibattito si è aperto a seguito dell’uscita dei risultati nell’edizione italiana di Le Scienze con il titolo “Il lato oscuro dell'open access”. Argomento ripreso immediatamente dalla stampa che – proprio nei giorni in cui in Italia si varava finalmente la legge sull’accesso aperto – puntava il dito contro l’Open Access in genere, ben oltre le effettive risultanze dello studio, con titoli come “Scienza web, c'è una fabbrica delle 'bufale' a pagamento”.
I fatti: John Bohannon, biologo ad Harvard e giornalista di riviste di divulgazione scientifica come Science e Wired, conduce un’indagine dal gennaio al giugno 2013 con l’obiettivo di smascherare quelle riviste “scientifiche” che pubblicano articoli senza una vera procedura di peer review, interessate soltanto a ricevere il contributo economico pagato dall’autore (e rimborsato poi dall’istituzione alla quale l’autore afferisce). L'esperimento, senza dubbio interessante, consisteva nell’inviare un "articolo civetta" volutamente insignificante e colmo di errori anche metodologici a un campione di 304 riviste – tutte rigorosamente ad accesso aperto - per trarre conclusioni sulla attendibilità del processo di peer review (quando esistente) e comunque sul controllo di qualità effettuato dalle riviste OA.
Di queste, ben 157 hanno accettato l’articolo a fronte del solo pagamento, senza accorgersi che era fasullo, mentre riviste OA “serie” come PLOS non sono cadute nel tranello e hanno bocciato il falso articolo dopo meticolosi controlli dove i revisori avevano evidenziato, oltre ad errori formali e fattuali, anche potenziali problemi etici legati alla mancanza di documentazione sul trattamento degli animali impiegati.
L’indagine Bohannon non può essere letta solo come un esercizio anti - Open Access perché mira in primo luogo a denunciare forme di editoria predatoria senza esporsi a denunce per diffamazione, come è invece successo a Jeffrey Beall. L’articolo del ricercatore di Harvard ha suscitato però secche critiche sottoscritte anche da scienziati autorevoli. Fra questi, Michael Eisen nel suo blog, ripreso poi in un articolo sul The Chronicle HE, sottolinea come sia poco utile, in fondo, discutere di OA da una posizione difensiva, cosa che la ricerca di Bohannon porta a fare, senza enucleare il reale problema che non è tanto l’OA, ma il grado di affidabilità dei processi di revisione da parte dei comitati editoriali.
Science è certamente una rivista prestigiosa, e l'articolo ad una prima lettura appare interessante, in particolare per la mappa interattiva allegata allo studio che evidenzia le linee internazionali dei pagamenti da un paese all'altro. Con diverse sorprese, come scrive Le Scienze nel presentarne il lavoro: “Bohannon è stato costretto a ricorrere al tracciamento degli indirizzi IP di riviste, redattori e conti correnti, scoprendo che - contrariamente ai riferimenti nel nome della testata, per esempio “American Journal of...” o “European Journal of...” - gran parte di esse avrebbe sede in paesi emergenti, in particolare India, Turchia e Pakistan. Il che, avverte l'autore, non significa che le società che alla fine raccolgono i profitti non si trovino in Europa o negli Stati Uniti”.
È però vero che a una lettura più attenta l’indagine si rivela carente dal punto di vista metodologico, in particolare riguardo al campione scelto, per almeno tre motivi. In primo luogo non è stato considerato un campione di riferimento di riviste non-open access, quando per delineare la situazione generale sarebbe stato opportuno comparare due campioni equivalenti, OA e non OA.
Del resto all’interno del campione selezionato non è oro tutto quello che luccica; è noto infatti ormai da tempo l’insidioso fenomeno dell’editoria predatoria che, strumentalizzando l’Open Access, mira a creare un mercato parallelo: si trovano così accomunati dall'etichetta "OA" modelli economici editoriali alle volte innovativi/interessanti, altre volte che rasentano la truffa. Il commento di Nick Barnes nel blog di Science evidenzia – numeri alla mano - come tra le riviste formalmente OA oggetto dell’indagine siano state considerate molte di quelle presenti nella lista nera di Beall. Distinguendo le percentuali di rifiuto e accettazione dell'articolo attraverso repertorio DOAJ e lista Beall le differenze sono notevoli.
Infine, andrebbe considerato che, a seguito delle politiche britanniche di apertura all’Open Access lungo la via Gold, numerosi editori tradizionali internazionali che detengono pacchetti con migliaia di riviste con ottimi IF (Impact Factor) stanno trasformando le loro riviste da chiuse a ibride. Sgradito effetto collaterale, a fronte del pagamento di una robusta quota pagata dall’istituzione entro il modello economico noto come Apc (Article Processing Charge) i comitati preposti alla revisione prestano sempre meno attenzione alla qualità. Più un editore pubblica, più incassa: e l’etica scientifica ne rimane compromessa.
"Il fatto che Bohannon - spiega Stefano Bianco, fisico delle particelle all’Infn e coinvolto nell’OA per il progetto Scoap3 - abbia smascherato i truffatori è molto, molto positivo e non vedo come possa nuocere al principio sacrosanto dell'OA che i risultati finanziati coi soldi pubblici debbano essere disponibili a tutti e alla consapevolezza che un nuovo modello commerciale sia necessario per contrastare il regime di cartello dei maggiori publishers”.
Antonella De Robbio