SCIENZA E RICERCA

Obesità piaga del secolo: il peso dei fattori sociali e genetici

Alzi la mano chi almeno una volta, davanti allo specchio, non si è trovato a dire “devo mettermi a dieta”. Intenzione che puntualmente si ripresenta con l’avvicinarsi della bella stagione. Eppure se oggi i canoni di bellezza pretendono figure femminili snelle e filiformi, poco più di un cinquantennio fa salivano sul podio di miss Italia donne dai fianchi prosperi e dai seni floridi, che il più delle volte non raggiungevano il metro e settanta. Al punto che Sofia Loren nel 1950, ritenuta troppo magra e poco donna, si vide soffiare il titolo di più bella d’Italia da una tale Anna Maria Bugliari. Questa tendenza si è radicalmente invertita e oggi la società propone, e i media impongono, un tipo di bellezza più esile e “spigolosa”. 

Se questo è il modello, la realtà è tuttavia ben diversa. “Lo spread tra reale e ideale, tra il corpo e l’immagine imposta, si è allargato – sottolinea Giuliano Enzi, autore del libro Grasso è bello? recentemente edito da Cleup – e questo genera in molti casi un disagio psicologico, che può portare a veri e propri disturbi del comportamento alimentare, tra cui anoressia e bulimia”. Con una conseguente spinta anche all’industria dei prodotti dimagranti, che porta Enzi a parlare di “commercializzazione del disagio”. 

A fronte dei canoni estetici imposti dalla società, patologie come obesità e sovrappeso sono in aumento. Stando ai dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, l’obesità negli ultimi trent’anni è quasi raddoppiata e rappresenta la quinta causa di morte a livello globale. Nel 2008 il 35% degli adulti era sovrappeso e l’11% obeso, tuttavia con importanti differenze nella distribuzione globale: la prevalenza è maggiore in America (62% in sovrappeso e 26% di obesi) e minore nel sud-est asiatico (14% in sovrappeso e 3% di obesi). In Europa il tasso di obesità si colloca poco sopra il 20% e in Africa non raggiunge il 10%.

A ciò si aggiungano le malattie che ne possono derivare: il rischio di diabete nel 44% dei casi, di patologie cardiovascolari nel 23% dei casi, oltre alla possibilità di sviluppare alcuni tipi di cancro e disordini muscolo-scheletrici. In Italia, in particolare, la spesa sanitaria direttamente o indirettamente legata all’obesità è stimata dall’Istat intorno ai 23 milioni di euro. 

Questi i numeri, ma quali le cause? “Influiscono – continua Enzi – fattori ambientali, culturali, economici e, non da ultimo, genetici”. Si tende spesso a colpevolizzare chi soffre di obesità come responsabile della propria condizione, si ritiene che l’obeso sia tale per mancanza di autocontrollo. In realtà, se senza dubbio dieta e attività fisica hanno il loro peso, il Dna può predisporre l’individuo alla patologia e l’ambiente far emergere le tendenze latenti. Sono state finora individuate ben 18 varianti genetiche legate all’indice di massa corporea, ai comportamenti alimentari e alla distribuzione del grasso che spiegano la tendenza all’obesità. 

Nell’ultimo secolo la rivoluzione industriale ha portato notevoli cambiamenti nelle abitudini alimentari degli individui dovuti in larga parte ai nuovi ritmi lavorativi imposti dal terziario. L’orario di lavoro e le brevi pause pranzo hanno indotto la necessità di “semplificare” i pasti o di utilizzare cibi preconfezionati. Le industrie alimentari, d’altro canto, con la sempre più pressante promozione mediatica, fanno a gara per rendere i cibi più saporiti, giocando sul contenuto di grassi e zuccheri. Vengono utilizzati coloranti, conservanti e annullata la stagionalità dei prodotti, compromettendone dunque anche la loro salubrità. “Si introducono negli alimenti – spiega Enzi – sostanze chimiche non presenti in natura, come il glutammato di sodio, che esaltano i sapori e inducono una sorta di dipendenza gustativa, quasi come una droga”. Fast foods, snacks, soft drinks, chips, pop corn sono termini che ricorrono frequentemente nel vocabolario alimentare di molti. In due parole, alimenti ipercalorici e cibo spazzatura. Il pasto viene consumato velocemente, non viene più concepito come momento rituale di aggregazione sociale. 

Accanto a questi fattori, anche cultura e religione possono influire sul modo di concepire il corpo e dunque sullo stato di benessere psico-fisico. Storicamente l’obesità era segno di fertilità e almeno fino alla rivoluzione industriale rimane un segnale di benessere, uno status symbol. Ancora oggi, in alcune tribù africane e del sud-ovest americano, le donne in età da marito sono obbligate a vita sedentaria e a iperalimentazione per arrivare grasse al matrimonio, mentre nelle classi benestanti dei paesi ricchi si preferisce un fisico asciutto. La religione, d’altra parte, può influire significativamente sulle abitudini alimentari della popolazione, basti pensare ai digiuni cristiani e musulmani.

Al di là della maggiore o minore accettazione sociale, sta di fatto che l’Oms ha adottato nel 2004 una Global strategy on diet, phisical activity and health e ha sviluppato un piano di azione globale 2008-2013 per la prevenzione e il controllo delle malattie non trasmissibili, per promuovere interventi volti a ridurre i fattori di rischio legati, oltre che a fumo e alcol, a diete poco salutari e inattività fisica. Perché, qualunque siano i parametri soggettivi di “bello” e “brutto”, non si dovrebbe dimenticare lo stato di salute. (1/continua)

Monica Panetto

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012