SOCIETÀ
Pagelle tossiche, primi anticorpi contro la finanza globale
Foto: Reuters/Yuya Shino
Con la decisione dell'amministrazione Obama di trascinare in giudizio Standard and Poor's si è aperta una fase nuova nei rapporti tra politica e finanza? Dopo che il dipartimento di Giustizia ha avanzato la richiesta di 5 miliardi di dollari di risarcimento a una delle maggiori agenzie di rating – le altre sono Moody's e Fitch – per i gravi danni all'economia Usa inflitti dal 2004 al 2007, alle voci di benvenuto nei commenti sui media mondiali hanno fatto eco le preoccupazioni per il ritardo di tale svolta. E sono emersi i dubbi sulla sua efficacia, se non accompagnata da una riforma complessiva della finanza.
Il lavoro delle agenzie di rating è quello di fornire valutazioni sulla qualità dei titoli emessi da imprese o da enti. Queste valutazioni, ai cui strambi codici ci siamo abituati (vanno da AAA a C), vengono fornite su richiesta e compenso delle stesse società o enti. Nella letteratura si chiama modello “issuer pays”: è come se i produttori di film pagassero i critici cinematografici che scrivono le recensioni. Solo che ogni “recensione” delle tre grandi del rating muove migliaia di miliardi: e questo succede sia perché gli investitori istituzionali (i fondi pensione, per esempio) sono obbligati a tener conto dei rating, quando scelgono quali titoli comprare; sia perché ogni annuncio di promozione o declassamento scatena ondate di vendite e acquisti in borsa, e dunque guadagni e perdite immediate; sia, infine, perché le reazioni agli annunci sul rating influenzano, a loro volta, la capacità di un'impresa o di un governo di tener fede ai propri impegni.
Già all'indomani della crisi, mentre gli ex manager della Lehman Brother inscatolavano i loro averi prima di lasciare le scrivanie, il comportamento delle agenzie di rating fu messo sotto accusa, per aver gratificato fino a pochi minuti prima del fallimento la stessa Lehman di una tripla AAA. Lo stesso era successo, per stare ai fatti di casa nostra, per il rating di Parmalat, ottimo fino a un secondo prima che arrivassero i giudici a mettere i sigilli alla cassaforte ormai vuota di Tanzi; e lo stesso copione si è ripetuto per il crollo del colosso Aig, e in tanti altri casi. “Una crisi di tale portata era inattesa e imprevista”, è stata la linea di difesa delle agenzie. Solo che l'accusa che adesso viene loro rivolta dal governo americano non è la stessa che rivolse la regina Elisabetta al top dell'accademia degli economisti (“come mai non avete previsto tutto questo?”), ma è un po' più infamante: frode. Gli operatori delle agenzie di rating avrebbero deliberatamente truccato i voti dei prodotti finanziari che “assicuravano” i prestiti immobiliari per attrarre gli investitori su questi, e mantenere alti i profitti dei loro clienti. Non avevano però previsto la crisi, che si sarebbe incaricata di svelare il gioco: ma il gioco era appunto quello appena descritto, reso possibile dalla connivenza di tutti i giocatori e dall’ignoranza (in senso letterale) del pubblico. Del resto, la stessa cosa era stata svelata nell'ormai famosa lettera di dimissioni del broker Greg Smith dalla Goldman Sachs, nella quale si legge dei meccanismi per i quali gli interessi del cliente vengono sacrificati a quelli della banca, e i risparmiatori di conseguenza non sono altro che “pupazzi” nelle mani dei consulenti finanziari.
Nelle grandi banche d'affari così come nelle agenzie di rating che dovrebbero controllarle, il malanno ha un nome preciso: conflitto di interessi. “Epidemico” nella nostra finanza globalizzata, per citare il titolo di un noto libro del giurista Guido Rossi, padre della nostra Consob. Libro di cui fa riflettere soprattutto la data di pubblicazione: anno 2003, ben prima dello scoppio della grande crisi. Dalle pagine del Sole 24 ore, ogni domenica, Rossi continua a denunciare mancanza di regole o la presenza di cattive regole nella finanza; così come, dopo la crisi, si sono moltiplicati gli allarmi e gli studi sul fallimento del modello “issuer pays” - per stare solo agli scandali dal rating. Nessuno di noi si fiderebbe a comprare una bottiglia di vino se il calice d'oro è stato assegnato da un consulente pagato dalla stessa cantina, perché allora tutto il mondo finanziario – e politico – continua a fidarsi delle AAA dei signori del rating? Lo scoppio e poi il dispiegarsi degli effetti della crisi hanno creato un terreno favorevole a una riforma delle agenzie di rating? Il primo regolamento della Commissione europea, datato 2009, aveva sì stabilito che “l'emissione di rating di credito non dev'essere influenzata da alcun conflitto di interesse o relazione d’affari”, ma non dava alcun conseguente strumento per raggiungere l'obiettivo. Tutto da valutare è invece l’impatto del recente emendamento approvato dal Parlamento europeo lo scorso 16 gennaio che detta le nuove regole del settore. Senza dimenticare che le proposte più radicali e incisive di riforma coinvolgono la stessa natura proprietaria delle agenzie: che dovrebbero diventare pubbliche e indipendenti, così come lo sono le autorità di vigilanza sulla concorrenza e sui mercati.
Con la causa avviata dal governo Usa contro S&P, tutte queste questioni potrebbero venir giù come una valanga, dalle singole operazioni di alcuni uffici sulle pagelle di alcuni derivati. E allora, ben oltre il valore simbolico della svolta politica di Obama (resa possibile dal fatto di essere al secondo mandato, necessaria per la gravità delle conseguenze sociali della crisi, e forse spinta dal “pressing” delle agenzie sul rating dello stesso debito statunitense), il processo alla finanza potrebbe diventare un processo di riforma della finanza. Sempre che i colossi prima definiti “too big to fail” e adesso “too big to jail” (“troppo grandi per andare in galera”, come sostiene William Greider su The Nation) non riescano, con le forze del denaro e delle lobby, a mettere i bastoni tra le ruote.
Roberta Carlini