UNIVERSITÀ E SCUOLA

Perché dare il voto alle scuole è ancora un tabù tutto italiano

Quarant'anni. È dal 1974 che in Italia si discetta di valutazione nella scuola pubblica, misurazione di efficienze, giudizi su capacità degli insegnanti e apprendimento degli allievi. Quella data segna l'abrogazione dell'ultimo provvedimento premiale esistito nel sistema scolastico italiano: il concorso "per merito distinto", che permetteva agli insegnanti con una certa anzianità di servizio di accelerare la propria carriera con il superamento di prove o selezioni per titoli.

Da allora, due generazioni di ministri dell'istruzione si sono succedute, riforme hanno ceduto il passo ad antiriforme, ma l'idea che il mondo della scuola possa essere giudicato secondo parametri certi, omogenei e dotati di effetti innovativi è rimasta un tabù: contro il quale hanno fatto fronte tutte le forze che pretendevano che la scuola nazionale rimanesse immobile, congelata in un egualitarismo e una pretesa di autonomia troppo spesso usati come alibi per soffocare ogni tentativo di smuovere le acque. Non si può dimenticare il famoso "concorsone" inventato dal ministro Luigi Berlinguer nel 1999 e presto ritirato, che prevedeva una maggiorazione economica annua di sei milioni di lire (oggi poco più di 4.000 euro) per gli insegnanti con dieci anni di servizio, valutati sulla base del curriculum e di prove selettive. Un tentativo certo mal congegnato (lo stesso ministro lo ha ripudiato), ma che aveva suscitato un'opposizione compatta quanto agguerrita.

Negli ultimi anni i responsabili del dicastero hanno avviato alcuni programmi sperimentali di valutazione (Vsq e VALeS) limitati a un piccolo numero di istituti, ma nessuno ha ancora azzardato passi più impegnativi. Da pochi giorni al ministero siede Stefania Giannini, che ha già dichiarato di essere favorevole al principio della valutazione: come si tradurrà questa posizione? In attesa di nuove iniziative, la Fondazione Giovanni Agnelli ha pubblicato un dossier sul tema, che può essere riassunto così: la valutazione a scuola è necessaria, ma va attuata con sapienza, e l'attuale cornice normativa non è il punto di partenza ideale.

In effetti, meno di un anno fa il governo Monti ha approvato il nuovo regolamento (Dpr 80/2013) sul sistema nazionale di valutazione: un atto che disegna una struttura a tre poli, basata sulla collaborazione tra Invalsi, Indire e ispettori ministeriali. Secondo il regolamento, il processo si articolerebbe in quattro fasi: autovalutazione da parte degli istituti, valutazione esterna, azioni migliorative e diffusione dei risultati raggiunti. Ma il provvedimento per ora è rimasto lettera morta, e se non sarà supportato da reale volontà politica rischia la fine delle tante enunciazioni di principi meritocratici e preannunci di riforma, contenute in decreti e contratti collettivi e risoltesi in spreco d'inchiostro.

Per la Fondazione Agnelli, il regolamento approvato può essere un primo passo, ma inciampa in due errori fondamentali: prevede incentivi economici esclusivamente per i dirigenti scolastici, demotivando del tutto i docenti, e lascia troppo spazio all'autovalutazione da parte degli istituti. Secondo il rapporto l'autovalutazione in Italia, per essere attendibile, deve sempre fondarsi su criteri comparabili con quelli del verdetto esterno: l'assenza di una vera cultura della valutazione non garantirebbe, infatti, la serietà di risultati basati su un mero giudizio interno.

Altro problema capitale del nostro sistema è l'assenza di esami centralizzati, comuni per tutti gli studenti che terminano un ciclo scolastico e ancorati a parametri ricorrenti a livello nazionale: per la Fondazione, il nostro esame di maturità non può rientrare in questa categoria, perché la discrezionalità nei giudizi delle diverse commissioni li rende disomogenei. Stessa opinione per l'esame di terza media (con l'eccezione della prova Invalsi, che pure è oggetto di tante polemiche). Assenti, nel nostro ordinamento scolastico, anche le prove standardizzate, che valutano gli studenti durante l'anno scolastico e sono composte da quesiti uguali per tutti. Esami centralizzati e prove standardizzate oggi sono diffusi in tutti i paesi europei: la Fondazione ritiene che il miglior sistema di valutazione si basi proprio sulla combinazione dei due tipi di prove, il modo più efficace per esaminare i livelli di apprendimento degli allievi. Ma alle prove, secondo il rapporto, vanno sempre affiancate ispezioni periodiche in sede da parte di osservatori: è l'unica modalità per vagliare elementi diversi dall'apprendimento, ma essenziali, come il clima organizzativo o la capacità d'integrazione.

Lo studio va controcorrente, invece, sugli esami ai docenti: un processo valutativo che assegni incentivi agli insegnanti è controproducente, perché può spingere a comportamenti scorretti (come nel caso delle scuole sospettate di aver aiutato gli studenti a superare le prove Invalsi per ottenere voti più alti). I premi ai docenti, spiega il rapporto, sono utili, purché non siano legati alla valutazione degli allievi: meglio affidare totalmente il sistema incentivante a prove concorsuali, oppure all'autonomia del dirigente scolastico. Una posizione che si rifà all'esperienza degli Stati Uniti, dove il legame tra carriera degli insegnanti e rendimento scolastico degli alunni è molto discusso. Discutibile è l'analisi delle ragioni per cui la cultura della valutazione è sempre stata respinta dal mondo della scuola: i docenti rifiuterebbero i giudizi esterni soprattutto perché non vengono adeguatamente informati su scopi e metodi della valutazione, non vengono istruiti per compartecipare e perché temono tagli e sanzioni.

Una visione forse ottimistica, che rischia di sottovalutare le formidabili spinte alla conservazione del sistema che mette d'accordo, da sempre, personale della scuola, rappresentanze sindacali, politica. Senza contare che è inutile parlare di valutazione se non si affronta il tema, decisamente più scabroso, delle risorse complessive a disposizione del sistema scolastico e dell'ammontare minimo necessario ad avviare iniziative premiali. Intanto, il ministro Giannini inizia la navigazione: l'augurio è di evitare sia i fortunali di Berlinguer che le secche degli altri predecessori.

Martino Periti

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