SOCIETÀ
Poletti, le idee su giovani e lavoro della sinistra che cita la Thatcher
Il ministro Poletti. Foto: Antonio Scattolon/A3/Contrasto
“Se vuoi cambiare un paese, governalo”. Non capita tutti i giorni di sentire un ministro del lavoro italiano citare Margaret Thatcher senza timore di evocare modelli e suscitare reazioni poco in linea con le consuetudini politiche nazionali: ma Giuliano Poletti, a sua detta, di tutto si preoccupa tranne che della ricerca del consenso facile. E così, a Padova per un incontro con Legacoop del Triveneto, non esita a denunciare il metodo della trattativa ad ogni costo, quello che a suo parere annacqua qualunque iniziativa forte per soddisfare i mille “comitati del no”, riflesso condizionato nazionale all’innovazione. E illustra una linea che egli stesso definisce “del 51 per cento”: quando un’idea appare con un rapporto costi-benefici favorevole, va attuata senza preoccuparsi troppo del 49 per cento rimanente perché di certo, aspettando un consenso plebiscitario o la soluzione di ogni minimo intralcio, l’occasione di agire andrà persa. Quella espressa da Poletti è, fuor di dubbio, una politica per il lavoro dai caratteri ultrarenziani: azione più che concertazione, ricerca di risultati rapidi più che di consensi ampi, nessun potere di veto in favore di forze sociali da sempre abituate ad avere l’ultima parola. Un programma che fa tanto più effetto in quanto la biografia del ministro è radicata in una sinistra solidamente tradizionale, come quella che ruota intorno al mondo politico e cooperativo romagnolo. Ma il linguaggio di Poletti di romagnolo ha soprattutto la franchezza ironica e scabra di quando enuncia, ad esempio, un cambio di rotta nella filosofia dei sussidi: “Fino ad oggi lo Stato ha dato fondi per far rimanere la gente a letto senza rompere le scatole. D’ora in poi i fondi verranno erogati se la gente dal letto si alzerà e verrà a romperci le scatole”. È l’obiettivo del programma Garanzia Giovani, il cui inizio è stato annunciato per il primo maggio: una serie di iniziative per promuovere l’occupazione giovanile, basate su orientamento e formazione al lavoro con il coinvolgimento diretto delle aziende. A chi lo accusa di precarizzare il lavoro, Poletti risponde con le statistiche registrate all’inizio del suo mandato: “Su 100 avviamenti al lavoro, 68 erano con contratti a termine. Dubito che la situazione di partenza potrebbe essere peggiore”. L’obiettivo del ministro è duplice: rendere più semplice il ricorso ai contratti a termine fino a tre anni, per evitare un’eccessiva rotazione di minicontratti; e, insieme, rendere meno onerosi i contratti a tempo indeterminato (“ci stiamo lavorando”). Il cammino legislativo dei provvedimenti del governo entra proprio in questi giorni nella fase più delicata: il disegno di legge delega è stato presentato al Senato da poco, mentre per la legge di conversione del decreto 34/2014 inizia in commissione alla Camera la discussione dei circa 400 emendamenti. L’impressione è dunque che le nuove politiche del lavoro si riassumano secondo uno schema ricorrente: meno burocrazia, meno garanzie “in bianco” per i lavoratori, meno ostacoli allo sviluppo delle piccole imprese. Tutti punti che sembrano andare di pari passo con le richieste del mondo imprenditoriale, ma che Poletti è fermamente convinto si traducano, anzitutto, in benefici per chi già lavora e per chi cerca occupazione. Così, ad esempio, il ministro vuole contrastare lo scarso ricorso ai contratti di apprendistato rendendo più agile la gestione della parte formativa; accenna a incentivi per i contratti di solidarietà, ma solo in presenza di garanzie da parte delle aziende su piano industriale e posti di lavoro; punta a regole più chiare per diminuire i contenziosi; propende per un minor numero di incentivi fiscali ai consumi, ma di durata pluriennale; è prudente, infine, sul tema del salario minimo, “parola d’ordine” che Poletti considera troppo generica in relazione alle diverse modalità con cui viene applicato nei paesi europei. Sfiora perfino un tabù, quello delle tutele dei lavoratori per le imprese oltre i 15 dipendenti, spiegando che è necessario favorire lo sviluppo delle aziende e non vincolarle a escamotage come “il capannone diviso in due metà da un muro, per creare due finte piccole aziende”. Insomma, il ministro sembra incarnare in pieno la strategia renziana del fine che giustifica i mezzi, perché è convinto che tutto si tradurrà in una svolta per le nuove generazioni: “Fino ad oggi - commenta - l’Italia è stata dominata dai ‘giovani dentro’. Adesso è ora di pensare ai ‘giovani fuori’”.
Martino Periti