SOCIETÀ

Quando la foto non è obiettiva

Get it all on record now, get the films, get the witnesses”. Registrate, filmate tutto; chiamate dei testimoni. Si racconta che queste furono le parole del comandante delle truppe alleate Eisenhower, quando vide la prima volta gli orrori di un campo di sterminio nazista. Oltre a far venire la popolazione dai villaggi vicini, il generale fece chiamare anche tutti i fotografi e i cineoperatori disponibili: “Prima o poi – aggiunse il futuro presidente degli Stati Uniti – qualche bastardo potrebbe negare che tutto questo sia avvenuto”.

L’immagine, fissa o in movimento, come prova inoppugnabile destinata a spegnere il dibattito storico? Nulla di più opinabile purtroppo, e non solo perché oggi viviamo nell’era di Photoshop, del ritocco digitale di massa. Questa la posizione, corroborata da documenti e testimonianze, di Giusy Randazzo, saggista e vicedirettrice della rivista Gente di fotografia, durante il suo intervento al convegno Shoah, storia di una disumanizzazione (organizzato dal master in Death Studies dell’università di Padova).

Non si nega ovviamente il valore fondamentale della documentazione fotografica, dal punto di vista sia storico che giornalistico: “Le foto rafforzano la nostra sete di giustizia – ha detto la studiosa e giornalista – spingono alla ricerca, calamitano la nostra attenzione e scuotono la nostra sensibilità. E non è poco”. Proprio nella società attuale le immagini – sempre più inflazionate, manipolate e commercializzate – rischiano però di perdere molta parte della loro forza di testimonianza. Quando invece l’essenza originaria della fotografia stava innanzitutto nel ‘ratificare ciò che essa ritrae’, come scriveva il critico e semiologo francese Roland Barthes. Un vero e proprio ‘certificato di presenza’ per documentare un ambiente, un volto, una storia. Che a volte però può non bastare se non è accompagnato dalla ricostruzione del contesto, innanzitutto psicologico, storico e sociologico.

L’esempio concreto proposto dalla Randazzo è quello di Giulio Iona, ebreo italiano morto ad Auschwitz assieme al padre Gabriele. Un ritratto, qualche normale immagine di una famiglia medio-borghese, che prese singolarmente non ci direbbero nulla. A dare spessore alle fotografie è il diario di Giulio, assieme alla testimonianza della nipote Ariela Fajrajzen. Si scopre così che il giovane decise autonomamente di condividere le persecuzioni del suo popolo, facendosi circoncidere da adulto e quasi di nascosto dalla sua famiglia. Che rifiutò di fuggire dal campo per stare vicino al padre. Grazie alla parola, scritta e orale, quelle immagini acquistano un senso, quei volti prima anonimi diventano persone, avvicinandoci al dramma che si cela dietro quegli sguardi. E documentano una vicenda storica drammatica come e più di altre immagini molto più espressive ma inflazionate, spesso riproposte senza alcuna spiegazione.

A sinistra, un ritratto di Giulio Iona; a destra, un'immagine tipicamente associata all'Olocausto

“Sei milioni è la stima degli ebrei uccisi nella seconda guerra mondiale – ha detto Giusy Randazzo nel suo intervento – spesso però dimentichiamo che quei numeri sono persone. Ognuna di loro vale. Quelle cifre nascondono occhi terrorizzati, nascondono la disperazione di uomini e donne, ragazzi e ragazze, bambine e bambini, anziani. Ognuno di loro ha un nome e un cognome. Ognuno di loro merita riconoscimento”. Citando il filosofo Giorgio Agamben “il soggetto ripreso nella foto esige da noi qualcosa [...] quella persona, quel volto esigono il loro nome, esigono di non essere dimenticate” (in Profanazioni, Roma 2005).

Se dunque è vero che nell’epoca attuale le parole hanno particolarmente bisogno di immagini (ma in realtà è sempre stato così: pensiamo solo all’arte delle miniature), è vero altrettanto che sempre più c’è l’urgenza di riscoprire il gusto della parola associata all’immagine, partendo innanzitutto da chi fa cultura e informazione. Si inserisce ad esempio in questo quadro la provocazione del quotidiano francese Libération, che lo scorso 14 novembre è uscito senza fotografie, in occasione della diciassettesima edizione di Paris Photo, una delle manifestazioni internazionali più importanti dedicate alla fotografia. Gli spazi bianchi tra le parole, secondo l’editorialista Brigitte Ollier, creavano l’impressione di un “silenzio imbarazzante”, come se all’improvviso il giornale fosse diventato muto. Allo stesso tempo però anche le immagini senza testo, raccolte nelle pagine finali del giornale, generavano l’impressione di un’accozzaglia di suoni, in sé interessanti ma incomprensibilmente sparsi e disarmonici.

Parole e immagini insomma, senza nulla togliere al valore della fotografia, sono fatte per completarsi a vicenda. In alternativa il rischio è di impantanarsi in una discussione infinita sulla veridicità o meno delle fonti.  Le immagini da sole infatti, nonostante i propositi di Eisenhower, non sono riuscite a fermare del tutto il negazionismo dei genocidi e dei crimini più efferati. “Sostenere che sia importante esibire delle immagini, magari scoperte da poco, cela una posizione intellettuale pericolosa – scrive ad esempio il critico e giornalista Maurizio G. De Bonis (L’immagine della memoria. La Shoah tra cinema e fotografia, Roma 2007) – Tale atteggiamento implica l’inquietante accettazione di un confronto dialettico con talune agghiaccianti tendenze negazionistiche, che stanno purtroppo moltiplicandosi”.

Questo perché lo scatto è tutt’altro che oggettivo, essendo prima di tutto il frutto dei condizionamenti del fotografo – espresso nella scelta o nella possibilità del momento, dell’inquadratura, del luogo... – e poi di quelli di ogni singolo spettatore. A questo si aggiunga che molte di queste immagini nel tempo perdono molto del loro potenziale emotivo, sia per la ripetizione, in qualche caso ossessiva, che per lo scemare dell’interesse generale.

Non basta quindi arrivare primi sull’immagine, né l’enfasi sul particolare truculento per recuperare il senso dell’immagine come testimonianza.  “La fotografia che ci mette di fronte alle stragi, alle aberrazioni umane, alle violenze, alla disumanità. Ci racconta che cosa possiamo diventare al di là di qualsiasi distinzione culturale, etnica, religiosa, storica – conclude la Randazzo – ci dice senza mezzi termini che cosa siamo capaci di fare e che cosa è possibile subire. Ma senza il racconto storico non serve assolutamente a nulla tranne a scioccare”.

Daniele Mont D’Arpizio

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