SOCIETÀ

Ricerca e lavoro: perché Europa e Stati Uniti sono diversi

Molti lettori conosceranno la serie televisiva The Big Bang Theory che racconta le vicissitudini di Leonard e Sheldon, due bizzarri scienziati dell’istituto di ricerca CalTech in California. Gli appassionati sapranno anche che Sheldon è texano, mentre Leonard è del New Jersey. Una versione europea potrebbe vedere insieme due ricercatori, Giuliano, italiano, e Josè, spagnolo, attivi in un laboratorio di Monaco. L’istinto, però, ci suggerisce che non sarebbe la stessa cosa.

Il primo dato che salta agli occhi è che sia Leonard e Sheldon, sia Giuliano e Josè hanno lasciato casa loro per andare a lavorare in un altro stato, sia pure all’interno di un’unione – economica, politica e culturale nel caso degli Usa, monetaria per la Ue. Per orientarci, cerchiamo una guida nei dati, andando a studiare le statistiche della National Science Fundation, disponibili qui per l’anno 2012. Lo scenario della spesa in ricerca è molto più simile a quella eterogenea dell’Unione Europea, che non a quella di un paese che agisce in modo unitario.

Questa situazione non deve sorprendere: non tutti gli stati puntano sull’innovazione tecnologica, ma alcuni investono in settori che ne richiedono meno – non necessariamente economie incentrate sul settore primario, ma anche un’attenzione maggiore ai servizi. I meccanismi sono noti agli economisti fin dai tempi di Adam Smith e della sua Ricchezza delle Nazioni. Nel commercio internazionale vi sono molti fattori, come la mobilità dei capitali, che favoriscono una settorializzazione della produzione dei diversi paesi. Sheldon e Leo si sono così spostati da stati americani che hanno trovato più conveniente importare tecnologie– per lo meno in alcuni settori – e concentrano i loro sforzi in altri campi, alla ricerca di ciò che gli economisti chiamano “vantaggio competitivo”.

Il medesimo meccanismo è presente al di fuori della ricerca: negli Stati Uniti la mobilità dei lavoratori è stata uno dei modi per ridurre la disoccupazione, favorendo lo spostamento di persone da aree depresse ad aree in espansione, in aggiunta a politiche di redistribuzione tra stati attuate a livello federale.

Anche il più ortodosso dei marxisti converrà che queste dinamiche non si risolvono al solo livello economico. Ogni trasferimento ha dietro una storia personale, con paure, speranze e ripensamenti; tra i fattori che aiutano a rendere meno traumatica questa scelta, c’è la consapevolezza che nella nuova residenza si troverà una comunità con comportamenti familiari e tradizioni condivise. Leonard e Sheldon si possono spostare in un posto dove si adopera la loro lingua, nei rapporti umani e nella produzione culturale, si festeggia il Thanksgiving il quarto giovedì di novembre, si cucinano gli stessi hamburger e si guardano le stesse partite di Nba invece che il calcio di Serie A o della Bundesliga.

La redistribuzione geografica della forza lavoro funziona senza creare tensioni sociali se avviene all’interno di un’area culturale omogenea, in cui residenti e i migranti si riconoscono. Si evita così la percezione dei nuovi arrivati come un corpo estraneo.

Da questa parte dell’Atlantico le dinamiche non sono molto differenti. Anche noi stiamo assistendo a una specializzazione delle economie, un fenomeno congenito alle unioni economiche: si favoriscono i settori in cui si è tradizionalmente forti e si cerca di scaricare i costi delle ristrutturazioni sulla quota salari, una ricetta meno costosa di quella basata su innovazione, ricerca e formazione del personale, che danno risultati solo a lungo termine. I tagli alla ricerca, che sembravano essere un problema tutto italiano, adesso sono endemici a molti paesi dell’Unione, come denunciano alcuni scienziati. Non c’è dietro incompetenza o malafede, ma solo l’impossibilità dei governi nazionali di opporsi alle dinamiche create dall’unione monetaria. Gli obiettivi del trattato di Lisbona restano così un pio desiderio, tanto più in fase di crisi. 

Inoltre, il riassetto cui stiamo assistendo avviene in assenza di due meccanismi fondamentali per garantirne l’equilibrio: l’intervento di un organismo transnazionale legittimato a governarlo e la mobilità della forza lavoro. La stabilità di un’unione dipende dalla possibilità di trasferimenti sotto forma di sussidi o investimenti dal livello centrale a quello dei singoli stati; vista l'opposizione che questa azione riscontra all’interno degli stati nazionali, difficilmente il principio di sussidiarietà si affermerà a livello sovranazionale. 

A tutto questo va aggiunto il fatto che la cosiddetta strategia di Lisbona (fare dell’Europa una “società dell’informazione”, una “economia della conoscenza”) è miseramente fallita. Il documento elaborato circa 15 anni fa sembrava garantire la Terra Promessa: “La società dell’informazione trasformerà l’Europa in una società e in un’economia in cui le tecnologie avanzae verranno usate per migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei cittadini. Se l’Europa saprà cogliere le opportunità che si prospettano, la società dell’informzione presenterà tutta una serie di vantaggi tra cui livelli di vita più elevati (…) posti di lavoro più interessanti grazie all’uso di tecnologie avanzate e di organizzazioni flessibili del lavoro. Queste stesse tecnologie consentiranno ai lavoratori di migliorare le loro abilità nel contesto di un processo di apprendimento lungo tutto l’arco della vita volto ad accrescee le loro prospettive occupazionali e i loro guadagni”. 

Come sappiamo, è avvenuto l’opposto: rispetto al 2000, non solo la disoccupazione è aumentata in tutto il continente ma l’introduzione massiccia di nuove tecnologie ha portato con sé una diffusa precarietà, una stagnazione dei salari, una delocalizzazione dei posti di lavoro verso i paesi periferici della UE o addirittura verso l’Asia.

Già negli anni Novanta il Census Bureau degli Stati Uniti aveva  pubblicato delle analisi del futuro del lavoro, delle stime dei mestieri in crescita nei prossimi anni, che andavano in direzione diversa dalla retorica di Bruxelles. Nelle previsioni che riguardano l’anno 2016, per esempio, si capisce che i mestieri del futuro sono non il tecnico informatico o il neuroscienziato bensì la guardia giurata, l’infermiere non diplomato, la badante. Già da parecchi anni le professioni in forte crescita nei paesi europei sono non quelle della “economia della conoscenza” ma quelle dei servizi alla persona, il che non dovrebbe stupire visto che Italia e Germania sono, insieme al Giappone, i paesi al mondo con una struttura della popolazione più squilibrata verso la vecchiaia: un italiano su quattro ha più di 65 anni mentre solo uno su otto ne ha meno di 14. La crescita degli impieghi nell’informatica è reale ma non compensa la povertà di offerta di altri posti di lavoro professionalmente ed economicamente interessanti. La rete commerciale si espande ma i posti degli addetti alla vendita nei negozi dei telefonini o negli ipermercati richiedono competenze minime, hanno condizioni di lavoro squallide e stipendi bassi. 

Quindi, mentre negli Stati Uniti le istituzioni federali hanno compiti chiari e precisi, e usano lo strumento pubblico per sviluppare la ricerca di base e trasformarla rapidamente in prodotti di consumo (si veda il recente libro di Mariana Mazzucato) in Europa la dimensione nazionale si traduce in una frammentazione dei progetti e in una concorrenza al ribasso fra gli stati, ciascuno dei quali cerca una “nicchia” economica per sopravvivere (la Grecia non può trasformarsi nella Germania in qualche anno). A questo si aggiunge il fatto che la mobilità dei lavoratori resta problematica perché mancano nel continente riferimenti culturali pienamente condivisi, a partire da una lingua comune. Ovviamente, il restare in mezzo al guado tra una federazione con istituzioni centrali e una comunità di stati sovrani penalizza in particolare i paesi più deboli, quelli della periferia.

Marco Barbieri

Fabrizio Tonello

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