SOCIETÀ
Forze statunitensi in Danimarca: cosa prevede il nuovo accordo decennale

Gli Stati Uniti hanno appena “conquistato” un pezzetto di Danimarca, senza troppo clamore e con metodi (almeno all’apparenza) perfettamente democratici. La scorsa settimana il parlamento danese ha approvato, con una maggioranza che definire ampia è riduttivo (94 voti a favore, appena 11 contrari), la cessione agli Stati Uniti di un’ampia sovranità su tre basi militari che si trovano sul suo territorio: a Karup (nella regione dello Jutland centrale, in quella che era considerata la più grande base aerea della Royal Danish Air Force), a Skrydstrup (nello Jutland meridionale) e ad Aalborg (nel nord della Danimarca, dove peraltro ha sede una giovane, ma rinomata Università). Il patto rientra in un più ampio accordo di difesa siglato con gli Stati Uniti: un accordo in realtà raggiunto con la precedente amministrazione Usa, quando era ancora presidente Joe Biden, nel dicembre 2023, poi perfezionato e ampliato nei dettagli sotto l’amministrazione Trump, e che soltanto la scorsa settimana i parlamentari danesi hanno deciso di ratificare. Le truppe americane, com’era previsto fin dal 2023, potranno utilizzare anche il porto di Esbjerg per il trasporto di personale ed armamenti in tutta Europa. Ci sono un paio di problemi però. Il primo è che l’accordo prevede che i soldati americani potranno operare liberamente non soltanto all’interno delle suddette basi, ma anche al di fuori di esse, con poteri di polizia militare nella zona: anche sui civili danesi. Una “sovranità” appunto, che, limitatamente a quelle aree, diventa perfino superiore a quella delle autorità danesi.
Inoltre c’è una disposizione scritta che consente alla polizia militare americana di “fermare” manifestazioni e proteste all’esterno delle strutture di loro competenza: con i manifestanti danesi che potrebbero dunque trovarsi privati, peraltro da una polizia straniera, del loro diritto costituzionale di manifestare pacificamente. Ma in questo accordo, della durata di 10 anni, c’è anche di più: le forze armate americane potranno disporre a loro piacere, anche al di fuori del perimetro delle basi, lo stazionamento di truppe, lo stoccaggio di materiale bellico, la manutenzione e l’addestramento del personale militare. Infine l’intesa prevede che i soldati americani restino comunque sotto la giurisdizione statunitense, anche qualora dovessero commettere crimini in Danimarca: nella pratica, consentendo loro d’ignorare i limiti imposti dalle leggi danesi. Il che costituirebbe una “forzatura” del perimetro disegnato dalla NATO nel 1949, quando furono stabilite le regole per l’invio di forze militari nel territorio di paesi alleati. Che disponeva tra l’altro, all’articolo 7: “Le autorità dello Stato di residenza hanno giurisdizione sui membri di una forza o di una componente civile e sui loro familiari a carico per quanto riguarda i reati commessi nel territorio dello Stato di residenza e punibili dalla legge di tale Stato”. Allo stesso articolo, comma 10, si precisava: “Le unità militari o le formazioni di una forza regolarmente costituite hanno il diritto di sorvegliare tutti i campi, gli stabilimenti o gli altri locali che occupano in virtù di un accordo con lo Stato ricevente. La polizia militare della forza può adottare tutte le misure appropriate per garantire il mantenimento dell’ordine e della sicurezza in tali locali. Al di fuori di questi locali, tale polizia militare sarà impiegata solo a condizione che si accordino con le autorità dello Stato di residenza e in collegamento con tali autorità, e nella misura in cui tale impiego sia necessario per mantenere la disciplina e l’ordine tra i membri della forza”. Peter Vedel Kessing, ricercatore senior presso l’Istituto danese per i diritti umani, sosteneva pochi giorni fa che “…secondo la nostra Costituzione nessun altro Paese - nemmeno gli Stati Uniti - può esercitare diritti di sovranità sul suolo danese, sottolinea il ricercatore. Finché non ci sarà la certezza che ciò sarà rispettato, quell’accordo non dovrebbe essere ratificato”. Il Folketing, il Parlamento monocamerale danese, non è stato di questo avviso.

La città di Nuuk in Groenlandia
Un primo passo verso la Groenlandia
Tutto questo ha un riflesso immediato, che probabilmente è il vero obiettivo dell’operazione: la Groenlandia, un territorio che appartiene formalmente alla Danimarca e che attualmente gode di una semi-autonomia, finito da anni nella lista dei desideri di Donald Trump. L’annessione dell’isola artica, la più grande del mondo (misura oltre 2 milioni di chilometri quadrati ed è abitata da circa 57mila persone), a cavallo del Circolo Polare Artico, all’estremo nord dell’oceano Atlantico, è una sua priorità: “Il suo controllo è necessario per garantire la sicurezza internazionale”, ha più volte dichiarato il presidente americano, peraltro senza escludere “l’uso della forza” per arrivare alla conquista dell’isola. Una palese minaccia che gli elettori groenlandesi, chiamati alle urne lo scorso marzo, avevano nettamente respinto, premiando una coalizione di destra assolutamente favorevole all’indipendenza dalla Danimarca, ma contraria a qualsiasi ipotesi di “cessione di sovranità” agli Stati Uniti. Al punto che Jens-Frederik Nielsen, attuale primo ministro groenlandese, leader del partito Demokraatit, liberale, moderato, che ha triplicato i consensi arrivando a sfiorare il 30%, aveva esclusoqualsiasi ipotesi di accordo: “Non vogliamo l’indipendenza domani, bisogna prima costruire delle buone fondamenta. L’interesse americano per la Groenlandia è una minaccia alla nostra indipendenza politica: dobbiamo difenderci. E non siamo in vendita”.
Ora però il voto del parlamento danese riaccende le preoccupazioni. Come se la Casa Bianca, conquistando un così solido avamposto in terra danese, avesse compiuto un primo passo concreto con l’obiettivo di controllare meglio e più da vicino la situazione in Groenlandia: o magari per poter intervenire, in caso di bisogno, con maggiore rapidità. Ancora il mese scorso il Wall Street Journal aveva pubblicato un’inchiesta nel quale rivelava che le agenzie di intelligence americane avevano ricevuto l’ordine di intensificare le attività di spionaggio della stessa Groenlandia. Con la premier danese Mette Frederiksen che aveva risposto piccata: “Gli Stati Uniti non possono spiare un paese alleato della Nato”. Trascorso poco più di un mese, la posizione della prima ministra danese sembra essere diventata molto più conciliante. E, a proposito del voto in Parlamento, a favore della cessione di sovranità agli Stati Uniti, ha difeso l’accordo sostenendo che “il problema non è un coinvolgimento eccessivo degli Stati Uniti in Europa. Al contrario, il rischio è che si disimpegnino e ritirino truppe dall’UE, o smettano di sostenere l’Ucraina”. Il ministro degli esteri danese, Lars Løkke Rasmussen, ha svelato un’altra clausola interessante: “L’intesa è irrevocabile per 10 anni, ma qualora gli Stati Uniti dovessero prendere il controllo della Groenlandia, la Danimarca potrebbe ritirarsi in anticipo”. Vuol dire che l’ipotesi è talmente concreta che le parti, Danimarca e Stati Uniti, hanno ritenuto necessario metterla nero su bianco.
Le critiche dei costituzionalisti danesi
Cosa abbia ottenuto il governo danese in cambio di questa “cessione di sovranità” non è ancora chiaro (di certo maggiori garanzie di difesa e sicurezza in caso di attacco straniero). Ma il voto parlamentare ha sollevato comunque un’ondata di critiche, e non soltanto dai (pochi) che hanno votato contro. Come Pelle Dragsted, leader del partito di sinistra Unity List che aderisce all’Alleanza Rosso-Verde (Enhedslisten): “È un accordo dannoso per il Paese. Avremo aree della Danimarca sotto giurisdizione americana, dove le autorità danesi non potranno esercitare controllo e dove potrebbero verificarsi abusi su detenuti. È un fallimento gigantesco verso la popolazione danese”. Anche il Danish Institute for Human Rights ha espresso il timore che i soldati americani, agendo anche al di fuori delle basi, possano interferire (con quali metodi?) nel corso di manifestazioni o attività civili senza essere perseguiti secondo la legge locale. Mentre i costituzionalisti, come scrive il sito d’informazione Rolling Out, si chiedono se il Parlamento abbia realmente “l’autorità di cedere il controllo sovrano sul territorio e sui cittadini danesi a forze militari straniere, anche alleate. L’accordo crea essenzialmente zone extraterritoriali all’interno della Danimarca in cui la legge americana e l’autorità militare sostituiscono il governo civile danese. Il fatto che una questione costituzionale così importante abbia ricevuto un dibattito pubblico minimo prima del voto parlamentare suggerisce un fallimento del processo democratico o l’elusione deliberata di questioni controverse che avrebbero potuto generare un’opposizione pubblica all’accordo”.
La Groenlandia resta in attesa degli sviluppi, ma non senza preoccupazioni. Anche perché il vicepresidente americano, JD Vance, in una visita lo scorso marzo nella base spaziale di Pituffik, un’enclave amministrativa statunitense nel comune di Avannaata, nella Groenlandia settentrionale, aveva già invitato esplicitamente i governanti locali a “tagliare i legami con la Danimarca”. Domenica scorsa il presidente francese Emmanuel Macron si è recato a Nuuk, la capitale della Groenlandia (che è più vicina a New York che a Copenaghen), proprio per ribadire “fisicamente” il sostegno della Francia e dell’Unione Europea: “La Groenlandia non deve essere venduta, né “presa”. Questa situazione è chiaramente un campanello d'allarme per tutti gli europei. Lasciate che vi dica in modo molto esplicito che non siete soli”. Poi ha esplicitamente criticato Trump (con il quale non intercorrono buoni rapporti), affermando che “…le frontiere della Groenlandia non sono negoziabili”. Il primo ministro groenlandese, Jens-Frederik Nielsen, ha incassato con soddisfazione il sostegno di Macron. Ma c’è poco da star tranquilli, in un’epoca dove le violazioni del diritto internazionale sono all’ordine del giorno e dove la “legge del più forte” è diventato ormai l’unico parametro riconoscibile e riconosciuto, a qualsiasi latitudine. Come aveva già sottolineato Amnesty International un paio di mesi fa nel suo ultimo rapporto The State of the World’s Human Rights: “Il 2024, e questi primi mesi del 2025, hanno visto il quasi collasso dello stato di diritto internazionale, con governi potenti che hanno minato i sistemi legali e messo a rischio milioni di vite con le loro azioni. Senza riforme urgenti e un’azione collettiva, il mondo rischia di dirigersi verso un futuro ancora più oscuro e instabile”.