SCIENZA E RICERCA

Se l’uomo-cyborg è già tra noi, serve un’etica del post-umano

Fino a che punto è lecito permettere alla tecnologia di modificare il corpo umano? E a un corpo “perfezionato” dalla biologia o dall’elettronica vanno applicati gli stessi canoni etici validi per un essere umano “naturale”? Esistono aspetti della persona che costituiscono valori assoluti, ed è quindi totalmente inaccettabile che siano alterati da qualunque intervento a scopo migliorativo? Interrogativi come questi sembravano appartenere, fino a qualche anno fa, a dimensioni fantastiche o, al più, a suggestive ipotesi su un futuro del tutto indeterminato: oggi sono quesiti che uno scienziato o un filosofo devono porsi a causa delle scelte che vengono assunte tutti i giorni nei laboratori e nei centri di ricerca. Quando apprendiamo, per esempio, che sono allo studio microchip che, inseriti nel cervello, potrebbero frenare la degenerazione neurologica ma anche aprire la strada ad applicazioni sconosciute, ci rendiamo conto che stiamo dando il definitivo addio all’idea di uomo come essere “naturale”, salutando il suo ingresso nell’universo del “post-umano”.

Questi temi sono al centro delle riflessioni di Giuseppe Longo, pioniere della scienza dell’informazione in Italia: il docente, a Padova per un seminario alla Scuola Galileiana, ha scelto negli ultimi anni di calarsi nell’intricatissimo dibattito sulle implicazioni etiche dello sviluppo scientifico, nel momento in cui l’evoluzione tecnologica ha iniziato a “invadere” il corpo umano fino a trasformarlo profondamente. Dalla lettura di Longo, il dilemma sulla cosiddetta dual-use research, la ricerca scientifica in grado di produrre benefici e danni all’umanità allo stesso tempo, sembra avere un senso relativo: di fronte a una scelta piena di incognite, ci sarà sempre un gran numero di scienziati che decideranno di proseguire nelle ricerche, accettando i rischi che le loro scoperte potrebbero comportare; l’unico freno efficace all’inevitabile progresso nella sperimentazione scientifica è, semplicemente, la mancanza di denaro. E allora, se è velleitario confidare sull’autoregolazione degli studi scientifici, può avere più senso assumere l’ottica dei filosofi della scienza, chiedendosi in astratto se e quanto questa dimensione del “post-umano” debba trovare delle barriere di ordine morale. La rivoluzione da cui siamo già travolti, spiega Longo, comporta riflessioni complicate sul piano etico e che investono la stessa idea di scienza.

Citando Habermas e Rifkin, lo scienziato sottolinea come il perno della nuova età che stiamo vivendo è il ribaltamento dell’idea di evoluzione: non più un processo che plasma l’essere vivente, ma un processo che dall’essere vivente è pilotato, e che porta l’uomo a cessare di “riprodursi” per iniziare a “prodursi” in esemplari sempre più perfetti. Una trasformazione che, quando entrano in gioco genetica e biotecnologia, diventa evoluzione pilotata della specie: nasce così l’homo technologicus, che rispetto al sapiens è fruttodi tecniche sempre più invasive, che entrano nel corpo e arrivano a sostituirne organi e geni: non più soltanto nella prospettiva di curare patologie, ma in quella di migliorare le capacità dell’essere umano o crearne di nuove. Di qui l’inevitabile interrogarsi sui rischi eugenetici: se andiamo verso una civiltà di esseri sempre più artificiali e perfetti, quale spazio rimarrà per gli imperfetti, che probabilmente rimarranno tali per ragioni economiche? Se già oggi in molti Stati occidentali accettiamo di discutere se gli obesi debbano pagarsi le cure o se i fumatori non vadano assicurati contro il rischio di tumore, perché escludere che in futuro gli imperfetti siano, legalmente, confinati a uno status di cittadini inferiori?

Quesiti cupi, ma che non possiamo fingere non siano attualissimi. D’altronde, la pragmatica visione di Longo rende molto più utile interrogarsi sul come fronteggiare eticamente una realtà che è ormai tra noi, piuttosto che tentare un illusorio appello a fermare l’”evoluzione pilotata”: in fondo, osserva lo studioso, è mai esistito davvero l’”uomo naturale”? L’essere umano non è forse un ibrido da sempre, modificato fin dalla sua comparsa dall’ingestione di cibo, dal contatto con l’ambiente, i batteri, i farmaci? E allora rassegniamoci: se i computer sono già tanto abili da ingannare, a volte, interlocutori umani, e se esistono automi talmente avanzati da essere in grado di riprodurre se stessi, il dubbio non è più se e come fermare l’artificializzazione della nostra civilità, ma tentare di governarla per quel che si può. Se oggi, nell’obiettivo di sconfiggere la morte, è divenuto lecito brevettare un prodotto biotecnologico - conclude Longo - questo ha un solo significato: la tecnica ha ormai prevalso sulla vita, e la distinzione tra queste due sfere è destinata, nel tempo, a svaporare. 

Martino Periti

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