UNIVERSITÀ E SCUOLA

Stati Uniti: quante università rimarranno tra dieci anni?

Dopo il commercio, l’editoria e i media, adesso anche per l’università potrebbe essere in arrivo una web revolution. Questa almeno è l’analisi dell’Economist, espressa in un articolo pubblicato nell’edizione cartacea. Gli atenei infatti, secondo il prestigioso settimanale economico, si trovano a fronteggiare sfide decisive per lo stesso futuro dell’alta formazione: da una parte l’aumento esponenziale dei costi, unita ai tagli ai finanziamenti statali dovuti alla crisi economica, dall’altra la qualità crescente dei corsi a distanza, più economici quando non addirittura gratuiti.

Non si tratta di questioni nuove: già nel 2012 si esaminava su Il Bo la questione dei corsi on line, citando molte delle informazioni e dei soggetti poi riportati dalla testata britannica. Così come è stata esaminata più volte dal nostro giornale l’altrettanto importante problema della crescita delle rette universitarie negli Stati Uniti, con il conseguente aumento dell’indebitamento degli studenti e la scelta di opportunità di formazione meno costose. La novità sta forse nella velocità dei cambiamenti, che obbliga a mettere in discussione le forme secolari e il ruolo stesso che l’università ha assunto nella cultura e nel sistema economico mondiale.

Negli Stati Uniti, ancora una volta epicentro del cambiamento, le tasse studentesche sono aumentate in termini reali del 28% dal 2002 al 2012 per le università non profit private, superando in media i 30.000 dollari all’anno (considerando che circa i due terzi degli iscritti ricevono una qualche forma di contributo o beneficio). Ancora maggiori gli aumenti per gli atenei pubblici: addirittura del 27% tra il 2007 e il 2012, raggiungendo gli 8.400 dollari per gli studenti in sede e i 19.000 per quelli residenti al di fuori dello stato. Il tutto ha portato l’ammontare complessivo del debito contratto dagli studenti oltre i 1.200 miliardi di dollari, con più di 7 milioni di posizioni a rischio insolvenza.

Se una volta questi investimenti sembravano garantire un ritorno certo in tempi sufficientemente brevi (anche se la regola non valeva alla stessa maniera per tutti i corsi), oggi su tutto pare incorrere l’ombra della crisi, con i neolaureati che trovano lavoro a condizioni mediamente peggiori e in un tempo più lungo. E l’insieme di questi fattori sembra per la prima volta avere una ripercussione anche sull’andamento delle iscrizioni, scese nel 2012 del 2% dopo essere aumentate del 25% nei precedenti 13 anni. Gli aumenti delle rette sono in parte dovuti agli investimenti nelle strutture e negli stipendi (particolarmente necessari in un sistema competitivo come quello statunitense), ma anche alla diminuzione e al mutamento del supporto statale, che dai finanziamenti diretti si sposta sempre più verso le borse di studio (ad esempio con i Pell grants).

Il problema non riguarda tanto le università di grande prestigio. Costi quel che costi, probabilmente ancora per molto tempo saranno in molti a volersi fregiare di un titolo con il prestigioso timbro di istituti come Harvard, Cambridge o il Mit. Il problema sono la miriade di college di fascia media che, nonostante eccellenze in determinati settori, devono la loro sopravvivenza ai fondi dei governi locali. Quale sarà ad esempio il destino dei Community Colleges, che formano gran parte degli insegnanti, dei funzionari pubblici e del management medio negli Stati Uniti? Sul punto alcuni analisti sono categorici: la metà delle università americane nei prossimi 10 anni è a rischio bancarotta, strangolata dall’aumento delle uscite e la concorrenza agguerrita dell’educazione on line.

Nel mondo infatti, a causa delle rivoluzioni tecnologiche e sociali in atto, sembra non esserci mai stato tanto bisogno di formazione. Molti vedono la risposta nei Massive Open Online Courses o MOOC, che in molti casi sembrano unire la qualità all’accessibilità dei costi. L’uso dei corsi on line viene anzi giudicato dall’Economist una “disruptive technology”, capace cioè di rivoluzionare profondamente o addirittura di creare un intero ambito di mercato. Già oggi i corsi  tramite web rientrano nel curriculum di molte università prestigiose, perché costano meno e sono anche flessibili nelle modalità e nell’orario. I problemi però non mancano: come essere ad esempio sicuri dell’identità del candidato nei test e nelle verifiche? Poi c’è il problema dell’efficacia: recentemente la San Jose State University ha deciso di chiudere un corso di laurea on line in matematica e statistica, visto che appena il 18% degli studenti superava l’esame iniziale di algebra, contro il 30% di quelli che frequentavano personalmente le lezioni. Un gap che poi cresceva con l’aumentare della complessità delle materie. 

Ma il problema non è solo rappresentato dai voti e dalla velocità con cui poi si troverà lavoro. Un po’ dappertutto nel mondo gli anni dell’università sono stati fino ad ora vissuti come un periodo decisivo nella vita dello studente, in cui la formazione di relazioni, le esperienze di vita e la maturazione della capacità di confrontarsi e di risolvere problemi sono altrettanto importanti delle materie studiate. Per questo oggi la tendenza è quella di alternare la formazione a distanza con lezioni e attività più tradizionali. La maggioranza degli interessati alla web university è inoltre già laureato, e si rivolge alla rete soprattutto per un secondo titolo o per un titolo post-universitario. Per questo l’idea tradizionale di università, che poggia soprattutto sull’idea di comunità di vita tra discenti e docenti, e non mera community virtuale, ha ancora qualche carta da giocare. Il problema, come negli altri settori, è quello di trovare un modello sostenibile. 

Daniele Mont D’Arpizio

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