SCIENZA E RICERCA

Stelle ai raggi X: la prima "magnetar", dal campo magnetico ultrapotente

Un po' come gli esseri viventi, anche le stelle nascono, invecchiano e muoiono. La fase finale dell'evoluzione di una stella dipende dalla sua massa: astri simili al Sole terminano la loro vita sotto forma di nane bianche, stelle con un raggio paragonabile a quello della Terra, ma con densità pari ad alcune tonnellate per centimetro cubico. Le stelle di massa superiore (tra circa 10 e 25 volte la massa del Sole) finiscono in una gigantesca esplosione (una supernova) che lascia dietro di se una stella di neutroni, un oggetto ultra-compatto, dove in una sfera di una decina di kilometri di raggio è concentrata una massa dell'ordine di quella solare. Le stelle di neutroni sono caratterizzate non solo da una densità estrema, paragonabile a quella di un nucleo atomico (circa un miliardo di tonnellate per centimetro cubico), ma anche da campi magnetici intensissimi, milioni di volte superiori a quelli che possono essere creati in laboratorio. 

Circa 20 anni fa, gli astrofisici Robert Thompson e Chris Duncan avevano ipotizzato l'esistenza di stelle di neutroni con campi magnetici ancora più intensi, fino a 1.000 volte quelli di una stella di neutroni “normale”: le magnetars (contrazione di magnetic stars). Lo studio di Thompson e Duncan muoveva essenzialmente da considerazioni teoriche e mirava a comprendere come nasce il campo magnetico di una stella di neutroni durante la sua formazione. Ben presto, tuttavia, ci si rese conto che le magnetars potevano spiegare i potenti eventi “esplosivi” osservati nei raggi X e che non avevano ancora trovato una interpretazione adeguata. I fenomeni di questo tipo di gran lunga più energetici sono i cosiddetti giant flares (lampi giganti), in cui un'energia pari a quella rilasciata dal Sole in 10.000 anni viene emessa in qualche decina di secondi. Sono eventi rari (finora ne sono stati osservati solo tre, nel 1979, 1998 e 2004, da tre posizioni diverse del cielo) e così violenti da poter influenzare la magnetosfera terrestre (e quindi le telecomunicazioni) pur avvenendo a migliaia di anni luce da noi.  

 Le continue osservazioni del cielo a raggi X rese possibili dall'avvento di nuove generazioni di satelliti dedicati hanno mostrato che le sorgenti responsabili dei “giant flares” emettono anche, e molto più frequentemente, “lampi” meno intensi e più brevi (meno di un secondo), detti bursts; proprio per questo sono diventate note come “ripetitori gamma soffici” (soft gamma repeaters, o SGRs). Nell'ultimo decennio bursts molto simili a quelli osservati dagli SGRs sono stati rivelati anche da altre sorgenti, i “pulsatori X anomali” (“anomalous X-ray pulsars”, o AXPs). In tutto si conoscono, ad oggi, circa 20 sorgenti di entrambe le classi ed il loro numero continua ad aumentare. In realtà, oltre all'emissione di bursts, i due gruppi hanno molte altre proprietà simili, tanto da far ritenere che la distinzione tra di essi sia più che altro legata alla modalità con cui la sorgente è stata osservata per la prima volta e non a differenze intrinseche. In particolare, entrambi sono caratterizzati da un'emissione di raggi X persistente (in aggiunta a quella sporadica legata ai bursts) che appare modulata con un periodo compreso tra circa 2 e 12 s, identificato con il periodo di rotazione della stella attorno al proprio asse. 

Le stelle di neutroni che, ruotando, emettono impulsi di onde radio a intervalli regolari (le pulsars) costituiscono orologi di estrema precisione. Ciò non di meno, una stella di neutroni dotata di un campo magnetico necessariamente rallenta la propria rotazione e quindi, sia pure molto lentamente, il suo periodo aumenta. Il tasso a cui avviene questa variazione del periodo (ad esempio di quanti secondi è aumentato in un anno) può essere misurato ed è una grandezza di particolare importanza, perchè dalla sua conoscenza (e da quella del periodo) si può ottenere una stima del campo magnetico sulla superficie della stella. Proprio con questa tecnica è stato possibile misurare il campo magnetico di SGRs e AXPs, ottenendo valori estremamente elevati che qualificano queste sorgenti come magnetars. È però necessario sottolineare come questa misura del campo magnetico (che viene comunemente detta “di rallentamento”, o spin-down) sia indiretta e dipenda criticamente da una serie di ipotesi circa il legame tra il periodo, il tasso di rallentamento e il campo stesso. 

La ricerca di una prova certa dell'esistenza delle magnetars, e quindi di campi magnetici ultra-forti, è proseguita senza sosta negli ultimi due decenni. Tuttavia, nonostante gli sforzi profusi e l'accumularsi di un gran numero di evidenze indirette, la “pistola fumante” non era ancora stata trovata: nessuno era ancora riuscito a misurare direttamente il campo magnetico di una magnetar e alcune teorie alternative in grado di spiegare le caratteristiche di SGRs e AXPs senza invocare la presenza di una stella di neutroni ultra-magnetizzata restavano valide. 

Una ricerca italiana, pubblicata sul numero del 15 agosto della prestigiosa rivista scientifica Nature, fa finalmente luce sul mistero delle magnetars. Grazie al lavoro di un team coordinato da Andrea Tiengo dello Iuss di Pavia e di cui fa parte Roberto Turolla del dipartimento di fisica e astronomia dell'ateneo di Padova, è stato possibile misurare il campo magnetico della magnetar SGR 0418+5729, che è risultato essere di circa un milione di miliardi di volte quello terrestre. SGR 0418+5729, che si trova ad una distanza di circa 6.500 anni luce dal sistema solare, è il magnete più potente finora scoperto nell’universo.

SGR 0418+5729 è una sorgente variabile, che è diventata improvvisamente più brillante nel giugno 2009, contemporaneamente all'emissione di alcuni bursts che ne hanno permesso la scoperta; da allora la sua luminosità continua a diminuire. I raggi X provengono da una zona limitata della superficie, circa 1 chilometro quadrato, che è molto più calda del resto. Abbastanza paradossalmente, SGR 0418+5729 era già salita agli onori della cronaca per essere la magnetar con il campo magnetico (ottenuto dalla misura “di rallentamento”) più basso mai registrato, paragonabile a quello delle stelle di neutroni “normali”, come le pulsar. Insomma, una magnetar-non-magnetar. La misura diretta del campo magnetico è stata ottenuta analizzando, con una tecnica particolare, la radiazione X persistente emessa dalla magnetar. I dati sono stati raccolti usando gli strumenti a bordo del satellite dell'Esa XMM-Newton nel luglio 2009, quando la sorgente era ancora molto brillante. Quello che il team ha scoperto è che l'emissione X di SGR 0418+5729 diventa meno intensa in corrispondenza a brevi intervalli della fase di rotazione e che la frequenza a cui questo avviene dipende dalla fase. Turolla, che ha sviluppato il modello, commenta: “È come se ci fosse qualcosa tra noi e la stella che scherma la radiazione in maniera selettiva, bloccando solo quella di un certo “colore” quando la stella ci mostra una certa parte della sua superficie. Abbiamo subito pensato che questo poteva essere dovuto alla presenza di un plasma di idrogeno vicino alla superficie. Quando una particella carica è immersa in un campo magnetico la sua capacità di intercettare la radiazione elettromagnetica diventa molto più grande ad una ben precisa frequenza, la frequenza di ciclotrone, che è proporzionale al campo”. 

Se questa premessa si fosse rivelata corretta avrebbe costituito la “pistola fumante”, perché misurare la frequenza a cui la radiazione “manca” è equivalente a misurare il campo. Continua Turolla: “C’erano buone ragione per escludere che i responsabili dell’assorbimento fossero gli elettroni, quindi restavano solo i protoni. Questo però implicava che il campo magnetico nella regione in cui è presente il plasma fosse svariante centinaia di volte più intenso di quello “medio” di  SGR 0418+5729”. A questo punto si trattava di verificare se un modello basato sulla risonanza di ciclotrone protonica fosse in grado di riprodurre le osservazioni. “Abbiamo immaginato che il plasma fosse contenuto in una struttura piuttosto piccola, di qualche centinaia di metri, a forma di arco, che sovrasta la zona calda e in cui è presente un campo magnetico molto intenso che varia con l’altezza dalla superfice. Questo campo è sovrapposto a quello “globale”, molto più debole, misurato attraverso il rallentamento rotazionale. Mano a mano che la stella ruota, i raggi che raggiungono il rivelatore attraversano l’arco in punti diversi e questo produce la variazione con la fase.  È un modello semplice che però è in grado di spiegare molto bene quello che vediamo”, conclude Turolla. 

Oltre ad aver dimostrato che SGR 0418+5729 possiede il campo magnetico più elevato mai misurato, la scoperta ha fatto emergere un aspetto altrettanto importante: in una magnetar sono presenti in piccole regioni campi magnetici molto più intensi di quello complessivo. Questo è un ingrediente fondamentale per spiegare l’origine dei bursts. Il fatto che il campo globale di SGR 0418+5729 sia particolarmente debole (almeno per una magnetar) ha reso per contrasto più evidente la presenza della regione con un campo ultra-forte, permettendone la misura. 

Roberto Turolla

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