UNIVERSITÀ E SCUOLA
Studiare in carcere: il protocollo tra ministero della Giustizia e università
Il polo universitario del carcere Due palazzi di Padova. Foto: Massimo Pistore
Università e amministrazioni carcerarie unite in una sorta di network per lo studio dei detenuti all’interno dei singoli istituti di detenzione. È in sintesi il progetto alla base del protocollo d’intesa firmato dal rettore dell’università di Padova, Giuseppe Zaccaria, e dal ministro della Giustizia Paola Severino.
Il documento impegna l’ateneo “a coordinare le esperienze esistenti sul territorio nazionale - si legge nel testo - individuare i risultati raggiunti e i problemi esistenti, raccogliere le proposte e promuovere la discussione al fine di elaborare uno schema unico di protocollo d’intesa per gli studi universitari all’interno degli istituti penitenziari, ferma restando l’autonomia delle singole università nell’organizzazione e gestione dei percorsi formativi”. Un’attività di coordinamento volta, insomma, a creare un indirizzo unitario su una questione di vitale importanza: quella dell’istruzione dei detenuti, parte integrante di un percorso riabilitativo che possa portare a un più facile reinserimento nella società civile a fine pena. “Padova traccia una strada - afferma il ministro Severino - che deve essere approfondita. La mia presenza qui serve a segnalare che il carcere può essere diverso, che ci può essere una cultura della legalità e ci possono essere strade alternative a una detenzione vista solo come una privazione della libertà e Padova è qui a dimostrarlo”.
Il protocollo sancisce il riconoscimento di un percorso che l’università di Padova ha intrapreso con il carcere a partire dal 2003. Dopo un primo accordo che dava la possibilità ai detenuti del Due palazzi e della casa circondariale di iscriversi all’università attraverso un percorso particolare, il progetto è cresciuto di anno in anno fino ad arrivare ai numeri attuali. Sono 52 i detenuti-studenti iscritti all’ateneo di Padova in sette aree scientifiche che comprendono le ex facoltà di giurisprudenza, ingegneria, lettere e filosofia, scienze della formazione, scienze politiche, psicologia e agraria. L’attività didattica è fornita attraverso l’assistenza di docenti volontari (uno per area di riferimento, più eventuali altri volontari) e da una rete di tutor il cui compito è quello di fare da tramite tra le esigenze dell’ateneo e quelle dell’amministrazione carceraria, oltre ad aiutare i detenuti nel percorso formativo vero e proprio. I tutor di ateneo si interessano soprattutto della parte burocratica-amministrativa: “La nostra funzione - spiega una di loro, Daniela Cipolla - è di gestire tutte quelle pratiche burocratiche come reperire i documenti necessari per l’iscrizione e motivare il detenuto nella corretta scelta del suo percorso di studio”. Pratiche burocratiche più difficili per gli studenti stranieri: “In questo caso ci sono più problemi - prosegue Cipolla - soprattutto per quelli che sono in possesso di un titolo di studio straniero”. Infatti è necessario ottenere una copia del documento, legalizzarlo e validarlo in Italia, “procedimenti non facili, dato che spesso il detenuto non ha un rete di contatti familiari così stretta nel Paese d’origine”. In questi casi, l’iscrizione all’ateneo avviene lo stesso e nel corso degli anni per arrivare alla laurea, i tutor cercano di reperire i documenti mancanti. A loro si affiancano i tutor “didattici”, coloro che hanno il compito di seguire lo studente, continuare a motivarlo e procurargli il materiale formativo e didattico necessario allo studio. Si parla di libri e dispense, da portare poi nella biblioteca del carcere per metterli a disposizione del detenuto stesso. I numeri parlano di un progetto in buona salute: sono circa 80 gli esami annuali dati dagli studenti (che hanno un’età media di 45 anni, spesso persone con già una laurea alle spalle) con una media di due diplomati all’anno e qualche aderente al progetto sottoposto a regime carcerario 41/bis (il cosiddetto regime del carcere duro). Tra i 52 detenuti, una dozzina è selezionata (in base a criteri di merito e a discrezione del carcere) per accedere al “polo universitario”: un’area predisposta per lo studio con celle aperte e la possibilità di avere accesso alla biblioteca, a computer e a una connessione internet. La convenzione prevede anche delle precise agevolazioni in termini di tasse: “Non si pagano quelle universitarie - spiega la professoressa Francesco Vianello, coordinatrice dell’attività dei docenti in carcere - ma solo quelle regionali, mentre i nostri docenti provvedono a fornire le lezioni e a organizzare le sessioni d’esame in carcere”. Certo, ci sono anche delle difficoltà, come il sovraffollamento delle carceri, compreso quello di Padova. “Non è facile studiare in queste situazioni assolutamente non idonee, anche se l’amministrazione del carcere ci viene incontro il più possibile - argomenta Vianello - dandoci spazi a disposizioni per lo studio”. Il sovraffollamento degli istituti detentivi è ben presente nella mente del ministro, anche se la Severino crede “che se lo si vuole è possibile studiare in qualsiasi condizione - argomenta il titolare della Giustizia - Ricordo di essere stata in commissione d’esame nel carcere di Rebibbia e di aver visto detenuti studiare in cella più preparati degli studenti all’università”. Certo, la Severino ricorda come con questo protocollo si cerchi di dare un’omogeneità di insegnamento “ma se si incomincia ad apprezzare la cultura, questa ti raggiunge dovunque”.
Gabriele Zanon