CULTURA

Sul perché i cellulari stillano sangue. "Congo"

Congo, del belga David Van Reybrouck, è il racconto di un continente nel continente, il racconto di un Paese che è grande come l'Europa occidentale, provvisto di straordinarie ricchezze naturali e umane. Dall'avorio e dalla gomma ai quattro milioni di deportati che divennero schiavi tra il XVI e XVIII secolo, dal rame al coltan, dai diamanti all'uranio e al cobalto: come immaginare la nostra modernità senza le risorse del Congo? Senza coltan, per esempio, niente smartphone, tablet, tivù a schermo piatto, pc portatili.

Il Congo ha una estensione di 2,3 milioni di chilometri quadri e meno di 1.000 chilometri di strade asfaltate, la vita media di un congolese non supera i 45 anni, la mortalità infantile è tra le più alte del mondo; le incalcolabili ricchezze del sottosuolo sembrano una dannazione più che una benedizione; si aggiungano una geografia complessa, una biodiversità tra le più spettacolari del globo, due fusi orari.

La forma saggistica del libro è capace di intrecciare il dato storico alla narrazione dei singoli destini, le riflessioni personali all’impianto giornalistico (numerosissime sono le interviste rifuse nel testo). Con uno stile e una scrittura stratificati ed evocativi, Van Reybrouck rende anche un dettaglio materiale apparentemente insignificante - il farfallino di Lumumba, il copricapo leopardato del dittatore Mobutu, la spada di Re Baldovino - veicoli di un significato storico. L'ambizione di questo archeologo e giornalista di Bruges è cogliere, nella grande Storia, le voci individuali di un intero popolo, in cerca, con le sue parole, "di ciò che finisce raramente in un testo, perché la storia è molto, molto di più di ciò che si scrive. Volevo intervistare delle persone, non necessariamente personalità influenti, ma individui segnati dalla Storia con la S maiuscola". 

Congo copre un arco temporale amplissimo. Si parte dalla storia del Congo precedente all’arrivo degli occidentali e alla colonizzazione belga (paternalistica e spietata e tuttavia modernizzante) da parte di una nazione europea ridicolmente minuscola rispetto all'estensione del Congo (85 volte più grande), e si continua con la narrazione dell'indipendenza, confusa e terribile, del 1960, (centrale l’assassinio di Patrice Lumumba, nel 1961, il primo capo del governo del Congo libero). Il caos postcoloniale culminerà nella dittatura grottesca di Mobutu (1965-1990). Van Reybrouck conclude, infine, con la storia più recente: le due guerre del Congo tra il 1996 e il 2002 con più di tre milioni morti, l’attuale presidenza dei Kabila, padre e figlio, e il neocolonialismo soft della Cina.

 Ma il libro è anche un affollarsi di personaggi: Leopoldo II, Henry Morton Stanley, il negriero arabo Tippo Tip, i missionari cristiani, i funzionari belgi, Patrice Lumumba carismatico e dilettantesco, l’egocentrismo patologico di Mobutu, ma anche il primo ciclista congolese, il fondatore della  religione kimbanguista, Simon Kimbangu, i musicisti dell'African Jazz autori del pezzo musicale più famoso di tutto il Congo, Indépendance cha cha. 

E, ancora, il mondo congolese: le sue molteplici lingue come il lingala, lo swahili, il kikongo; le sue tribù (bakongo, baluba, tutsi, ecc.) e le città, soprattutto Kinshasa, autentico termitaio di otto milioni di abitanti.

Uno degli aspetti più incisivi di Congo sono le pagine sulla cosiddetta tribalizzazione. Attualmente vaste zone del Paese, come il Kivu, dove sono concentrati i maggiori distretti minerari, sono dominate da milizie paramilitari di etnia tutsi in rivolta contro l’autorità dello stato centrale, come l' M23 o il CNDP del signore della guerra Laurent Nkunda. Nei fatti il Kivu è sottratto all'autorità di Kinshasa, le violenze e i crimini contro popolazioni inermi non si contano. Apparentemente sembra una guerra fra tribù ma, come cerca di dimostrare Van Reybrouck, la “coscienza tribale” è un effetto del discorso coloniale ottocentesco: "Ciò non significa - scrive l’autore - che non ci fossero state tribù, ovviamente sì… adesso però quelle differenze venivano ingrandite e fissate per sempre. Piovevano stereotipi. Le tribù non erano comunità rimaste immutabili nel corso dei secoli, lo diventeranno nei primi decenni del Ventesimo secolo".

Nel caso del Congo, e del Ruanda, le società etnografiche belghe isolarono, quasi in vitro, alcuni caratteri originali di una tribù opponendoli a quelli di un’altra tribù. La manipolazione dell’appartenenza etnica da allora è diventata sempre più un elemento chiave dei conflitti in Congo. E i primi a comprenderne l’alto potenziale distruttivo sono stati proprio gli attori belligeranti. Politici, militari, uomini d’affari, miliziani e trafficanti sono stati capaci di nascondere, dietro l’illusorio scudo etnico, obiettivi e interessi che vanno ben al di là dei cosiddetto “odio tribale”. Quando si tratterà di appropriarsi e saccheggiare coltan, tantalio, stagno e rivenderli illegalmente alle multinazionali, si riscoprirà l’appartenenza etnica come irrinunciabile pretesto conflittuale e perfetto paravento. 

In Congo bellezza e dolore umano vanno di pari passo, sembra dirci Van Reybrouck. Da quelle parti, come scrive Badibanga, un poeta congolese degli anni Trenta, "la Rėve et l’Ombre étaient de très grands camarades". Sono grandi amici, il sogno e la tenebra.

Ultime notazioni. La traduzione italiana è nella collana “Varie” di Feltrinelli, il libro ha più di 650 pagine, è incollato con poca perizia e tende a sfasciarsi durante la lettura. Sarebbe stato utile inserire alla fine del libro una sintetica cronologia storica congolese, soprattutto degli ultimi cinquant’anni. Anche la cura di questi particolari significa fare buona editoria.

Sebastiano Leotta

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