SOCIETÀ

Tutta questione di informazione

Per chi voglia tenere traccia di quanti calci tira il bimbetto nella pancia della mamma e confrontarne il numero con l’attività prevista per quel periodo, è possibile ormai scaricare da iTunes numerose app, che seguiranno la futura mamma dal concepimento al parto con suggerimenti utili, consigli per la dieta e gli acquisti per il bebé. Accanto alle app gratuite e più giocose (iMamma, iPregnant, e chi più ne ha) ne esiste in Italia anche una più seria (e a pagamento) creata dalla Società Italiana di Diagnosi Prenatale che oltre a fornire rigorose e aggiornate tabelle biometriche per i nascituri di razza caucasica, indica per ogni trimestre tutti gli esami a cui la donna dovrebbe sottoporsi.

La strada per una procreazione consapevole e responsabile è lastricata infatti di buona informazione, che con buona pace degli operatori sanitari, fino a pochi anni fa unici depositari e interpreti dei dati diagnostici, trova oggi agguerrita concorrenza nei media più impensati e non più solo nella superstiziosa ignoranza della puerpera di turno. La questione non è di poco conto: l’accesso libero per chiunque all’informazione medica suscita polemiche fin dai tempi in cui le prime banche dati scientifiche arrivarono on line con tutto il loro potenziale di dati, attendibilità e possibili interpretazioni fantasiose da parte di un pubblico non adeguatamente formato. Alla eccessiva facilità di reperimento delle informazioni (corrette o meno) e ai rischi connessi al tentativo di trarne conseguenze senza disporre di competenze adeguate, si oppongono quindi ogni giorno campagne di comunicazione, counselling personalizzato, opuscoli informativi curati da specialisti e distribuiti dai medici alle coppie in attesa, nonché – più attivamente – screening obbligatori o meno.

La questione infatti sale improvvisamente di livello quando dalla informazione (teorica) si passa necessariamente alla pratica che ne può derivare, come dolorosamente testimonia anche la recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 16754 del 2.10.2012), alla cui base sta una contestata carenza di informazione da parte del medico e una conseguente omessa prescrizione di alcuni accertamenti richiesti dalla gestante. Al di là dei risvolti etici e giuridici della sentenza, difesi da alcuni e pesantemente criticati da altri, nonché le inevitabili ricadute assistenziali, resta il problema del valore attribuibile all’informazione “primaria”, ovvero i dati medici sul nascituro, desumibili dalle indagini effettuate durante la gravidanza, fondamentali per la salute di madre e figlio ma non per questo immuni da approcci improntati a diffidenza.

Se infatti i medici correttamente si interrogano sulle percentuali di successo che ogni forma di diagnosi prenatale raccoglie, su falsi positivi e falsi negativi, e sulle reali capacità dei test di intercettare malattie e malformazioni, altri propugnano una visione più schiettamente antropologica che mette in discussione sia l’approccio tecnologico e sovra-medicalizzato verso la maternità, per cui la gravidanza normale rischia di diventare un’eccezione (si vedano i dati del progetto Technisierung der normalen Geburt, secondo il quale la percentuale dei casi classificati in Bassa Sassonia come “a rischio” sono passati dal 29.9% nel 1987 al 74% nel 1999), sia l’uso stesso delle ecografie che introduce uno sguardo “decorporeizzante” della madre verso il figlio, con una possibile perdita della fiducia nella percezione fisica e corporea di un fenomeno naturale. O ancora, la raccolta e la conservazione dei dati provenienti da analisi prenatali pone indubbiamente seri problemi di privacy per la madre e il neonato, con ovvie ripercussioni sulle scelte della donna e dei sanitari.

La partita della buona informazione si gioca su molti livelli e porta a molteplici conseguenze. Questa informazione “primaria” d’altronde non può non condizionare il comportamento della madre. Pur nella varietà dei casi e delle persone coinvolte, le statistiche ci consegnano dati molto chiari: di fronte a una diagnosi di malformazione o malattia genetica del feto, oltre il 90% dei casi si risolve (in Italia) in una interruzione volontaria di gravidanza. La difficoltà di assicurare una terzietà dell’informazione verso la donna si somma spesso alla differente percezione delle informazioni stesse che le viene dalla sua scolarità, età e etnia di appartenenza, anche qui non senza conseguenze all’atto pratico.

E poiché quando si tratta di informazione medica tutto si lega, è il ruolo stesso della ricerca a colorarsi di ambiguità quando scivola sul piano dell’applicazione pratica. Se la ricerca infatti doverosamente sperimenta nuove tecniche d’esame sempre meno invasive e pericolose per il nascituro, e diagnosi genetiche sempre meno costose, aiutando a contenere la spesa sanitaria e a migliorare salute e qualità della vita, contemporaneamente si mantiene alto il timore di facili derive eugenetiche, soprattutto in culture dove la malformazione o la malattia genetica  sono viste come una tara che coinvolge la famiglia o dove la tradizione privilegia i maschi e apre quindi la porta alla selezione delle nascite a seconda del sesso. 

Attenzione però, non parliamo solo di culture distanti dalla nostra. Se studi recenti confermano che nell’Europa meridionale ancor più che in quella del nord è spesso considerato “socialmente irresponsabile” far nascere bambini con malattie genetiche – una selezione con motivazioni mediche, quindi, anche se spesso meno sostenibili di quanto si pensi - nel 2003 la European Society of Human Reproduction and Embryology, pur condannando ogni prassi sessista, ammetteva altresì come “moralmente accettabile” la selezione del sesso del nascituro nei casi di “family balancing”- dunque, anche per ragioni non strettamente mediche. Non stupiamoci quindi quando vedremo arrivare il kit per l’autodiagnosi prenatale anche nel nostro appstore di fiducia, ma prepariamoci al mal di testa quando ci chiederemo se siamo sicuri di come sarà usato.

Cristina Gottardi

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