CULTURA

Una nuova tappa dell'evoluzione è possibile. “Lucy” di Luc Besson

Davvero utilizziamo soltanto il 10% delle nostre capacità cerebrali? Idea suggestiva, che fa pensare a ognuno di noi di avere un “tesoro” imponente di capacità inespresse e ci sembra sensata forse perché ognuno di noi, ogni giorno, si sente troppe volte stanco, apatico, deconcentrato, e facendo il confronto con i momenti più brillanti, sogna di poterne fare la norma. Ma, purtroppo – e prevedibilmente – non è così. Nonostante sia stata smentita più volte dalla ricerca, da ultimo anche dall'università di Cambridge, e risalga probabilmente a un testo tutt'altro che scientifico degli anni trenta, un celeberrimo manuale di Self Help  a firma Dale Carnegie, quest'idea con il suo innegabile potere evocativo continua a circolare nell'immaginario collettivo. Una tentazione ghiottissima per il cinema, sempre alla ricerca di spunti suggestivi e di storie che trascendano la quotidianità. 

Cosa accadrebbe, dunque, se fossimo in grado di utilizzare al massimo le nostre capacità cerebrali, e  ne avessimo una quantità enorme da risvegliare? Anche la fantasia fatica a fornirci una possibile risposta: in fondo, sfruttandone solamente “il 10%” siamo riusciti a realizzare cose sorprendenti e sempre in via di perfezionamento. Questa è la domanda che Luc Besson si propone di affrontare tornando alla regia, dopo Cose nostre – Malavita (con Michelle Pfeiffer e Robert De Niro), e lo fa attraverso il genere d'azione fantascientifico, uno dei suoi preferiti (Il quinto elemento, con Milla Jovovich e Bruce Willis) Il ruolo di protagonista va a Scarlett Johansson (Vicky Cristina Barcellona, Under the skin) che interpreta una studentessa trovatasi coinvolta, contro la sua volontà, in un traffico di droga il cui scopo è mettere sul mercato una nuova potentissima sostanza stupefacente. Lucy (nome della protagonista e titolo del film) viene costretta a trasportare una busta della sostanza che le è stata inserita nell'addome. Durante il viaggio però, ribellatasi alle molestie di alcuni trafficanti, viene brutalmente malmenata e presa a calci nello stomaco quando è a terra.  E qui succede l'irreparabile: la busta si rompe e metà del contenuto si riversa nel suo corpo. 

Gran parte dei supereroi nascono successivamente ad un incidente, chimico o di altra natura, che muta le loro condizioni biologiche – dal morso del ragno radioattivo di Spiderman al vaccino sperimentale di Cesare, lo scimpanzé intelligente del recente Remake del pianeta delle scimmie - e Lucy non fa differenza. La sostanza assimilata, infatti, dona alla protagonista la capacità di utilizzare una sempre maggiore potenzialità cerebrale, che aumenta gradualmente durante il film scandendone i capitoli. A differenza di altri supereroi come Superman, Hulk o I Fantastici Quattro, i cui poteri appaiono chiari e limitati a determinate sfere d'azione, quelli di Lucy risultano potenzialmente illimitati. Non sappiamo, fino all'ultimo, “cosa può fare davvero” un cervello al 100% delle potenzialità. 

Questa scelta di sceneggiatura rappresenta, dal punto di vista cinematografico, la forza di questa eroina, e al contempo la sua debolezza. Risulta interessante rappresentare un eroe che possiede dei poteri in costante espansione, senza debolezze che arrivino a guastare la festa, anche se ciò toglie a Lucy quella fragilità in cui lo spettatore potrebbe riconoscersi (i momenti di identificazione con l'eroe sono spesso i capisaldi dei film di questo genere) e che la caratterizzava all'inizio. A causa del suo potere, che le amplifica tutte le facoltà, quelle note e altre ancora ignote, la nostra supereroina non prova più emozioni definite ed è ormai estranea al mondo che la circonda; la sua stessa sensibilità si espande in modi per noi incomprensibili. Scarlett Johansson rappresenta bene questo senso di alienazione, in un modo molto simile alla recitazione di Brad Pitt in Vi presento Joe Black, dove anch'egli, interpretando la morte, deve mostrare un senso di estraneità nei confronti della vita, raggiungendo un'inespressività carica di forza e in nulla apatica. 

Lucy è destinata all'onnipotenza, ma non ne farà un uso egoistico. Sorprendentemente, infatti, anche se confessa di non provare più emozioni, decide di sfruttare questa occasione a vantaggio del genere umano. Per fare ciò, contatta il neuroricercatore Norman (interpretato da Morgan Freeman, che passa da Il cavaliere oscuro a Lucy mantenendo pressapoco lo stesso ruolo), che la aiuterà a raggiungere il suo scopo. Durante la collaborazione Norman pone la questione se l'umanità sia pronta a ricevere una conoscenza così vasta, sviscerando così un altro tema che accompagna l'uomo dall'inizio della sua esistenza, ovvero se sia giusto sapere ogni cosa, o non sia meglio ignorarne alcune. Il regista, tramite la voce del suo personaggio, prende una posizione precisa: niente è più pericoloso del rimanere nell'ignoranza. 

Lucy rappresenta la possibilità di varcare i limiti umani, è l'Ulisse del nostro tempo. Ma cosa accade quando ogni limite viene superato? Nell'ultimo capitolo del film le capacità della supereroina raggiungono il massimo, e la potenza è tale da non poter essere più contenibile dal corpo. I limiti peculiari dell'uomo, lo spazio, il tempo e il proprio corpo vengono valicati, e Lucy smette di essere in un posto preciso in un momento preciso, per cominciare ad essere ovunque e in ogni tempo – una condizione che richiama immediatamente il finale di 2001: Odissea nello spazio di Kubrick. Sarà proprio il potere di viaggiare nel tempo che le permetterà di tornare indietro di secoli, fino a raggiungere una sua antenata, la prima donna di cui si abbiano prove dell'esistenza, battezzata, non a caso, “Lucy” dai ricercatori che la trovarono, con una scena di grande pathos emotivo, tramite cui il regista ci svela il motivo del nome della protagonista, ipotizzando implicitamente una seconda grande evoluzione umana. 

Uno dei messaggi del film è che la massima intelligenza non prende in considerazione la possibilità di utilizzare il potere per scopi personali, perché per sua natura privilegia il bene comune. L'empatia con tutti i viventi, quando ci si espande fino a comprendere il tutto, prevale, ci dice Besson, con una scelta per la responsabilità del singolo verso la collettività che ricorda la sua Giovanna d'Arco, oltre al già citato Quinto elemento. E anche se la storia dell'uomo ci mostra spesso l'opposto, per la durata del film è piacevole accettare questa speranza

Alcune scene, come l'adrenalinico inseguimento in macchina e il disarmo di un sicario col solo pensiero, ricordano esplicitamente Matrix dei fratelli Wachowski, film che con la sua carica di innovazione tecnologica ha influenzato profondamente tutto il genere d'azione. E non si può non pensare a Le iene di Quentin Tarantino quando i “cattivi” di Besson entrano in scena vestiti in completo nero con cravatta e camicia bianca, o nell'iniziale furia vendicativa della protagonista. Gli amanti dell'azione e degli effetti speciali non rimarranno delusi. Nonostante la tesi ispiratrice del film non sia vera - ma la fantascienza, d'altronde, ha abbandonato lo sviluppo rigoroso di teorie scientifiche effettive ormai da tempo immemorabile - l'ultima opera di Luc Besson riesce a essere una storia coinvolgente che stuzzica le curiosità dello spettatore fino all'ultimo minuto. D'altronde, già all'inizio del film il regista si confessa, quando il neuroricercatore Norman rivela ai suoi studenti che, di quello che dirà, niente è dimostrato scientificamente.

Jacopo Schiesaro

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