SOCIETÀ
Una repubblica fondata sulla speranza di lavoro
8 maggio 2013: l'uomo d'affari tedesco Bertram Rollman parla con una dipendente nella sua fabbrica a Gotse Delchev, circa 200 km a sud di Sofia. L'Eurostat evidenzia che il tasso di disoccupazione giovanile della Bulgaria è tra i più elevati dell'Unione
I giovani in Italia non trovano lavoro, oggi più che mai. Tra quanti cercano occupazione, i giovani hanno sempre incontrato maggiori difficoltà: ma il divario tra il tasso di disoccupazione dei 15-24enni e quello complessivo è andato progressivamente allargandosi, dai 15,3 punti del 1977 ai 24,6 del 2012 (Istat, Occupati e disoccupati: dati ricostruiti dal 1977). Secondo l’Istat a marzo 2013, il tasso di disoccupazione dei giovani era del 38,4%.
Ma la nostra Repubblica non doveva essere fondata sul lavoro? La nostra Costituzione non doveva riconoscere a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuovere le condizioni che rendano effettivo questo diritto?
“Il principio costituzionale - spiega Barbara Pezzini, costituzionalista dell’università di Bergamo - sottrae spazio alla assoluta libertà della politica: è un chiaro programma di priorità politica rispetto alle libertà dell’iniziativa economica privata e pretende una politica orientata verso la piena occupazione”. Le scelte politiche devono essere sì declinate in base al contesto in cui si opera, ma, secondo Pezzini, “questo non toglie che si debbano misurare gli effetti previsti, e che vadano valutate in base al raggiungimento dei risultati attesi”. Alla luce delle norme costituzionali. Sarà anche per questo che il titolo della riforma Fornero recita Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita. Ma le intenzioni a volte si scontrano con i fatti, ad esempio per un governo che non ha esitato a toccare una norma di rilievo simbolico come l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, senza ottenere benefici effetti sui tassi di occupazione.
Il datore di lavoro non è più obbligato, ora, a restituire il posto in seguito a un licenziamento illegittimo, ma solo a dare un risarcimento economico. Il reintegro è previsto solo nel caso ci sia stata una discriminazione, basata su motivi di sesso, razza, religione o di partecipazione ad attività sindacali o politiche. La norma, così modificata, comporta degli spostamenti chiari rispetto al margine di sicurezza garantito in precedenza ai lavoratori: “Assegnare il reintegro al licenziamento discriminatorio - spiega Silvia Niccolai nel suo intervento in Riforma Fornero: un’analisi ragionata - è un modo per ribadire che il diritto alla stabilità non è più il bene maggiormente protetto dall’ordinamento. Nel caso della discriminazione, il reintegro esprime la volontà di sanzionare il datore per un’offesa grave a un bene della persona, non al suo interesse alla stabilità del lavoro”. Intanto il rapporto tra insider e outsider, ovvero tra chi ha raggiunto la stabilità e chi ne rimane lontano, è sempre più spesso vissuto come un conflitto generazionale tra giovani condannati a un lavoro precario e chi invece ha un posto fisso. Per la Pezzini è “un ordine di idee da superare, il punto non è difendere giovani o vecchi, dipendenti o lavoratori atipici.” Al giorno d’oggi per lavoratori non intendiamo più soltanto operai o impiegati col contratto a tempo indeterminato, ma persone con forme molto meno regolari di attività, che è necessario tutelare al di là della forma giuridica di inquadramento.
Rimanendo fermo il principio, può cambiare quindi il modo di assicurare le garanzie, tenendo conto dell’evoluzione del mercato del lavoro. In questo senso si parla di flex-security, considerando la sicurezza del lavoro come un concetto da garantire nell’insieme, ma non più legato al tradizionale posto a tempo indeterminato. Il problema vero è da dove partire: se infatti si mira alla flessibilità come in gran parte d’Europa, ma si rimanda il momento di attivazione delle tutele, si rischia di negare ogni sicurezza.
Forse il danno più grave non è tanto aver sfatato il tabù o scardinato il totem dell’articolo 18, ma aver sostenuto che questa rinuncia fosse necessaria per rilanciare l’economia, come se le aperture domenicali dei negozi potessero aumentare il potere d’acquisto delle famiglie, o il licenziamento facile portare nuovi posti di lavoro in imprese ferme o che non vengono pagate nemmeno dagli enti pubblici.
La Costituzione parla di retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro, di esistenza libera e dignitosa per sé e la propria famiglia, di riposo e ferie. Diritti raggiungibili se costituissero un obiettivo condiviso, ma che rischiano di rimanere un miraggio nel dibattito sterile tra chi crede che il mercato si possa autoregolare e chi difende un’idea di posto di lavoro immobile e intoccabile.
Elisabetta Menegatti