CULTURA

Vivere o scrivere? Filmare forse…

Xiaolu Guo è una scrittrice e regista cinese-inglese che ha lasciato Pechino all’inizio del nuovo millennio per spostarsi a Londra, una delle contact zones più creative del mondo globale. In poco più di un decennio Guo è riuscita a trasformare il suo “inglese da immigrata” in uno strumento espressivo potente, con cui ha scritto e pubblicato cinque romanzi, uno dei quali è stato finalista del prestigioso Orange prize for fiction nel 2007 (A concise Chinese-English dictionary for lovers), e a essere recentemente selezionata dall’influente rivista letteraria Granta come una delle giovani voci più promettenti della scrittura britannica contemporanea (Granta’s Best of Young British Novelists 2013). La sua filmografia conta oltre una decina di titoli fra brevi documentari e film, tra cui Ufo in her eyes, che ha ricevuto il premio Città di Venezia in concomitanza con la mostra del cinema lo scorso settembre, e She, a Chinese, premiato con il Golden Leopard all’ultimo festival di Locarno.

Guo sembra cavalcare più vite con energia e determinazione, oltre che con enorme creatività. Viaggia moltissimo, da un festival all’altro, da una presentazione di libro a un convegno letterario, ciascuno in un paese o continente diverso, per riuscire a vivere del proprio lavoro. Su una rotta che dalla Germania la stava portando a Istanbul, Guo si è fermata all’università di Padova il 12 dicembre scorso, invitata dal seminario di anglistica e americanistica del dipartimento di studi linguistici e letterari, per raccontare la propria esperienza e, in particolare, cosa significhi muoversi come artista fra una pluralità di culture, di lingue e mezzi espressivi, e quali siano le possibilità offerte dagli intricati processi di traduzione culturale che informano i suoi lavori. Armata di libri e di video clip degli ultimi documentari girati per le vie dell’East End di Londra, in un’aula gremita di studenti e docenti, Guo ha tessuto un racconto schietto, fatto di parole e immagini, di esperienze proprie e altrui, sulla ricerca di senso in un mondo in cui si è tutti stranieri – che si tratti di vivere a Pechino nel rinnovato assetto capitalistico della politica economica cinese, o nel centro metropolitano inglese, diventato “casa provvisoria” per milioni di persone di ogni parte del mondo, che nella sua opera non figura come avamposto inespugnabile della Fortezza Europa ma piuttosto come uno degli snodi di transito di un ordine linguistico ed economico globale delocalizzato.

Lo sguardo disincantato dell’artista si concentra sui guadagni e sulle perdite per la vita delle persone causati dai flussi planetari che hanno cambiato la Cina ma anche l’Europa, e produce opere che “traducono” la migrazione e l’alienazione, la continua negoziazione linguistico-epistemologica e  i processi di costruzione della memoria che caratterizzano la vita del migrante, le zone di incomprensione e resistenza fra oriente e occidente, nonché gli aggiustamenti necessari alla sopravvivenza – dei corpi e delle identità – quando si vive al centro del ciclone, come oggi accade per molti cinesi intrappolati in cambiamenti socio-economici vorticosi e non controllabili. Se la storia d’amore del suo Piccolo dizionario cinese-inglese per innamorati ci fa toccare con mano tali questioni attraverso la sperimentazione linguistica e una forma letteraria profondamente ibrida, l’ultimo documentario Late at night. Voices of ordinary madness cuce insieme una serie di interviste ai diseredati che vivono nelle strade di Hackney a Londra, dove lei stessa abita, per produrre un guerilla film, una forma di cinema militante che guarda all’allargarsi progressivo della massa dei dannati della terra globale. Guo si identifica con i suoi personaggi, sapendo che potrebbe essere una di loro, o diventare una di loro se il suo progetto artistico fallisse.

Il rapporto con Londra e con l’occidente per Guo è al tempo stesso ammirato, critico e utilitaristico. Riconosce di dovere moltissimo alla letteratura occidentale, che ha avuto un impatto decisivo sul suo percorso formativo di adolescente negli anni Ottanta, quando il governo centrale aveva permesso la traduzione di opere della Beat Generation americana, di Jack Kerouac e Allen Ginsberg, ma anche J. D. Salinger e Sylvia Plath, aprendo per la sua generazione possibilità di fuga intellettuale e di espressione individuale impensabili rispetto a una tradizione letteraria locale imponente e immobile. E ricorda con gratitudine l’incontro successivo con il cinema europeo alla Beijing film academy, i grandi registi e autori che ancora oggi sono i suoi modelli, come Pasolini, Godard, Buñuel, Fassbinder... La sfida per l’artista è scrivere e fare film contaminando continuamente i linguaggi e le storie dell’est e dell’ovest, e così riposizionare la Cina e la sua esperienza di cinese al cuore della contemporaneità.

Ma Guo confessa anche, con schiettezza, di intrattenere una relazione di sfruttamento capitalistico nei confronti dell’Europa, e in particolare di Londra, che le permette di vivere vendendo libri. Ama e odia la metropoli caotica, rumorosa e impietosa che ora è casa sua (per scelta ma anche perché non le è permesso tornare in Cina), come ama e odia l’impegno totalizzante della scrittura. In una nota conclusiva del suo intervento padovano, Guo racconta come negli ultimi quattro anni, per scrivere I am China, in pubblicazione nel 2014, abbia praticamente smesso di respirare, abbia quasi sacrificato l’esistenza intera. “Vivere o scrivere?” è diventato per lei il dilemma attorno a cui organizzare un giorno dopo l’altro, ma il rovello amletico dell’artista sembra trovare risposta ancora una volta nel suo essere per l’arte, nello spostare su un piano contiguo le sue stesse potenzialità creative: la soluzione all’ansia di dover (anche) vivere, per Guo, è lasciare la penna e prendere la cinepresa, scendere in strada e cominciare a girare un film e, dice, “I call that life”.

Annalisa Oboe

Ufo in her eyes, 2011

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