CULTURA

Contro i luoghi comuni, nemici del talento

Pare ci sia stato un tempo in cui nei bar si chiacchierava del libro che stavi leggendo invece che dell’ultima stagione di Game of Thrones. La cosa davvero alla moda, però, sembra fosse occuparsi di critica letteraria. E l’importanza di riuscire ad analizzare un racconto o una poesia era direttamente collegata alla curiosa credenza che la letteratura occupasse un posto in qualche modo centrale nella società. Questo è il racconto che Martin Amis fa degli inizi della sua carriera al Times Literary Supplement in La guerra contro i cliché, tradotto (parzialmente) da Einaudi a più di tredici anni dall’uscita in lingua originale. Una realtà difficile anche soltanto da immaginare: oggi persino i rappresentanti della cosiddetta borghesia pensosa e i radical chic parlano con molta parsimonia, se non proprio riserbo, delle proprie letture. La critica letteraria a sua volta è sempre più respinta nel circolo chiuso delle accademie. Con una serie di effetti, uno dei quali piuttosto deleterio.

La (buona) letteratura ha infatti, per Amis, la valenza di un efficace antidoto contro gli stereotipi, linguistici e culturali. “Idealizzando, possiamo dire che [per me] in genere scrivere significa combattere contro i cliché. E non soltanto di cliché di penna, ma anche quelli della mente e del cuore”. Cliché: secondo il Devoto-Oli ‘schema di un ragionamento o di un discorso che si ripete abitualmente; espressione priva di originalità’. Martin Amis nel libro non ne dà una definizione, se non in negativo: ciò che manca di “freschezza, energia, una voce che riverbera”. I cliché sono idee che impediscono di avere idee; pensieri preconfezionati che credi di possedere, quando invece sono loro a possederti.

Si potrebbe obiettare che anche la ricerca spasmodica dell’originalità può divenire uno stereotipo, a cui gli autori anglosassoni sembrano particolarmente esposti. 'I don't want to write a sentence that any guy could have written' ha detto una volta Amis, noto per l’acutezza e per l’ironia dello stile, non meno che per l’aria perennemente severa e corrucciata. Già dal titolo, ha notato il collega e amico Jason Cowley, l’autore vuol far sapere da che parte sta, elevando se stesso a campione di originalità contro una torma di scribacchini pusillanimi: “in questo libro non troverai opinioni ordinarie e banali, niente luoghi comuni”. Ciò nonostante, sempre secondo Cowley, questi saggi rappresentano il lavoro migliore dello scrittore inglese.

La letteratura insomma, secondo Amis, ha la funzione specifica di evidenziare i luoghi comuni su cui si regge la nostra visione – in definitiva la società – e di metterli in discussione. Solo che per riuscire a farlo ci vuole talento. Qui secondo l’autore sta l’inghippo: la società attuale è nemica del talento. Un concetto tanto elitario e antidemocratico, così fuori moda che nemmeno la critica lo utilizza più: “Non è grazie a un accurato studio della poetica di Wordsworth che si fa carriera oggi, ma portando avanti, per esempio, un’innovativa ricerca sulle sue idee politiche (...); si fa carriera ancora più velocemente, poi, ignorando  del tutto Wordsworth ed esaltando un qualche contemporaneo (giustamente) misconosciuto”.

Gli esempi sono riportati dallo stesso autore: Norman Mailer e William Burroghs hanno goduto forse di una fama immeritata, provocata piuttosto che dalla qualità letteraria dagli atteggiamenti provocatori e autodistruttivi, così affascinanti per noi moderni. Il contrario di quanto accade a Philip Larkin: nel dopoguerra poeta laureato britannico per eccellenza, demolito dopo la morte per le accuse di presunto sessismo e xenofobia. Questo quando, secondo Amis, al centro della riflessione dovrebbe esserci sempre il testo e la sua qualità intrinseca: per questo lo strumento principe è, a detta dell’autore, la citazione: “l’unico che abbiamo”, senza il quale “la critica è solo il monologo di un cliente in fila in un negozio”.

Peccato solo che nella versione italiana di The War Against Cliché siano stati eliminati proprio gli articoli che affrontavano in maniera più specifica la critica letteraria, come l’intera sezione dedicata alla letteratura classica inglese. Il libro perde in questo modo la sua struttura e tende a ridursi in un elenco di folgoranti incontri con alcuni dei grandi autori di lingua inglese contemporanei, piuttosto scollegati tra loro anche se tracciati con la maestria di chi è anche un grande romanziere: dai venerati Saul Bellow e John Updike a Philip Roth, del quale non viene apprezzata la vena intimistica e autoanalizzante di alcuni romanzi. O Truman Capote, ritratto anziano e malato, figura tragica e faceta dal fisico minuto e dalla caratteristica voce stridula: “In lui – scrive lo scrittore inglese – lo stereotipo della persona che ‘conosce tutti’ assume una dimensione più ampia”. Un giudizio quasi caricaturale, di cui Amis sembra più tardi pentirsi. “Mi stava simpatico e, a ripensarci ora, non ho dato prova di una grande sensibilità al capezzale di quest’uomo – aggiunge in un poscritto – Pazienza. Con le dovute modifiche, questo articolo è stato usato altrove come necrologio”.

Daniele Mont D’Arpizio

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