SOCIETÀ

Dissenso e crisi della politica tradizionale: quali vie d’uscita?

Oggi possiamo dirlo, aveva torto Francis Fukuyama e ragione il politologo americano Ken Jowitt: dopo la caduta del muro nel 1989 non c’è stata la fine della storia bensì un “nuovo disordine mondiale”. Paura, insicurezza, terrorismo: sono queste le parole chiave di un mondo che forse non ha mai conosciuto tanto benessere, ma che non riesce più a vedere (magari anche sbagliando) il proprio futuro. Intanto le masse sembrano sempre più affascinate dall’uomo forte: non solo Trump, Putin ed Erdogan, anche Orban, Narendra Modi in India e Rodrigo Duterte nelle Filippine… e che dire del piglio bonapartista di Emmanuel Macron?

Un scenario che nell’ultimo anno ha assunto proporzioni inimmaginabili, cogliendo di sorpresa buona parte delle élites occidentali, inclusi intellettuali e media. Che dopo lo stordimento dell’impressionante uno-due dell’anno scorso (Brexit ed elezioni presidenziali americane), tentano faticosamente di raccogliere le idee. Ne La grande regressione (Feltrinelli 2017) ad esempio 15 intellettuali da tutto il mondo (tra cui Zygmunt Bauman, Nancy Fraser, Slavoj Žižek, Paul Mason, Pankai Mishra e la nostra Donatella Della Porta) si interrogano intorno a questi segni di tempi sempre più nebulosi e incerti. A coordinare l’operazione, uscita quasi in contemporanea in tredici lingue, è Heinrich Geiselberger, redattore presso la famosa casa editrice berlinese Suhrkamp, che dopo gli attentati a Parigi del 13 novembre 2015 ha chiesto agli autori una riflessione a partire da alcune semplici domande: come siamo arrivati a questo? Quale sarà la nostra situazione fra cinque, dieci o vent’anni? Come mettere fine a questa regressione globale e sviluppare un movimento inverso?

Un discorso partito dunque da un tragico fatto di cronaca, ma che poi nel suo svolgersi ha preso spunto soprattutto dagli avvenimenti dell’ultimo anno. Perché la storia, scrive nel suo contributo Bauman, non si ferma: continua a sfuggire al controllo dell’uomo generando ansia, nonostante una tecnologia sempre più invadente e pervasiva. Intanto, nonostante le enormi conquiste degli ultimi anni in tutti i campi, la fiducia nel futuro si fa sempre più flebile e labile: “Se crediamo ancora al ‘progresso’ (il che non è affatto scontato), ora tendiamo a concepirlo come un insieme di benedizioni e di maledizioni – scrive il sociologo polacco, da poco scomparso – anche se queste ultime aumentano sempre di più e le prime sono sempre più rare”.

Sul banco degli imputati, come sempre più spesso accade, ci sono il “neoliberismo” e la globalizzazione. Ma non solo: c’è anche la crisi, apparentemente irreversibile, degli stati sovrani, e un mondo che faticosamente cerca nuovi equilibri. Perché se gli stati tendono a trasformarsi in vicinati, scriveva Michael Walzer 30 anni fa, i vicinati tendono a militarizzarsi e a trasformarsi in stati. Per questo il corrispettivo della globalizzazione non può che essere un aumento del localismo, come forma di reazione per sfuggire all’ansia del confronto/scontro con il diverso. Ed è proprio nelle periferie e nelle campagne che i cosiddetti populismi hanno trovato il loro serbatoio di voti.

La storia si è rimessa in marcia, ma fatichiamo ancora ad accorgercene, compresi i leader e le classi dirigenti dei partiti politici tradizionali. Se il sociologo bulgaro Ivan Krastev arriva a parlare dei populismi come di una “insurrezione mondiale contro l’ordine liberale e progressista post-1989”, secondo la teorica femminista Nancy Fraser il motivo del loro successo non sta tanto nel rifiuto del neoliberismo, quanto della sua versione progressista. Una parte dei settori sociali storicamente rappresentati dai partiti progressisti, secondo la filosofa americana, si è sollevata contro i suoi “padroni politici”, e “la sorpresa non è che lo abbiano fatto, ma che ci sia voluto così tanto”.

Di fronte al dolore, sociale e umano, dei lavoratori e della classe media la politica tradizionale non solo non ha trovato risposte: non le ha nemmeno cercate. La società insomma è diventata ancora più competitiva ed esasperata, ma ai perdenti stavolta non è stata lasciata nessuna consolazione, nemmeno quella di vivere in un sistema ingiusto. Anzi, spesso le classi popolari, già spiazzate dai cambiamenti, si sentono attaccate nei loro stessi valori. “Per queste fasce della popolazione si aggiunge la beffa del moralismo progressista – continua Fraser – che le insulta continuamente ritraendole come culturalmente retrograde”.

A volte però il basket of deplorables reagisce, e allora la storia si rimette in moto. Ed è questo forse il problema fondamentale, avvertito da molti autori: quello di incanalare oggi in forme costruttive il dissenso. Le proteste di piazza sono fallite, mentre il voto sembra aver perso molto del suo valore e potere. Oggi inoltre i valori liberal, basati sull’inclusività e l’emancipazione degli individui e di tutti i gruppi sociali, paradossalmente – a differenza di quelli borghesi tradizionali – sembrano non ammettere dubbi e dissensi. Ma se la massa crescente di esclusi non sa come esprimere istituzionalmente il proprio dolore, si fa forte la tentazione di far saltare il banco della democrazia.

Un problema, un interrogativo urgente a cui il libro non può rispondere direttamente. A volte oscillanti tra la riflessione e autoanalisi, i contributi dell’opera collettiva si mantengono su un ottimo livello di analisi, fornendo uno strumento prezioso per orientarsi nelle nebbie di tempi sempre più incerti. Del resto riconoscere il male non è già un passo decisivo verso la cura (per quanto possibile)?

Daniele Mont D’Arpizio

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