SOCIETÀ

Diritto al voto e controllo francese: scontri in Nuova Caledonia

«L’isola più vicina al paradiso è diventata l’isola più vicina all’inferno», ha sintetizzato l’arcivescovo cattolico della Nuova Caledonia, monsignor Michel-Marie Calvet, in un messaggio dai toni disperati per chiedere la fine delle violenze, degli scontri che finora hanno provocato 6 morti e che hanno trasformato quel “paradiso” in un terreno di battaglia, con incendi e devastazioni. Il piccolo arcipelago si trova nell’Oceano Pacifico sud-occidentale, a 1.300 chilometri dalle coste dell’Australia, circa 290mila abitanti sparsi in un territorio che complessivamente è grande quanto il Veneto, per avere un’idea delle proporzioni. Ma lì, in quell’ex colonia (dal 1853, sotto Napoleone III) che si trova tuttora sotto il dominio della Republique Francaise (oggi tecnicamente è una “collettività francese d’oltremare”, inserita dalle Nazioni Unite nella lista dei “territori non autonomi”, quindi non decolonizzati: la sua valuta, il Franco del Pacifico, è ancorata all'euro e i suoi cittadini hanno diritto di voto sia alle elezioni francesi sia a quelle europee), sta accadendo da giorni qualcosa che non è soltanto di grave in sé, ma che potrebbe avere ripercussioni non secondarie sugli equilibri geopolitici nell’area dell’indo-pacifico, da sempre terreno di scontro tra Stati Uniti e Cina. La questione riguarda anche la Francia, com’è ovvio; e per vicinanza l’Australia. I fatti, in ordine: lo scorso 13 maggio è scoppiata una violenta rivolta, innescata dagli indigeni Kanak, da sempre sostenitori dell’indipendenza dell’arcipelago, per contestare una legge appena approvata dall’Assemblea nazionale francese che concede diritto di voto ai cittadini francesi che si sono trasferiti sull’isola da almeno 10 anni. I disordini più gravi sono avvenuti nella capitale Noumea: negozi e centri commerciali presi d’assalto, saccheggiati e distrutti, case e veicoli bruciati, colpi d’arma da fuoco, anche di grosso calibro, barricate innalzate dai rivoltosi sulle strade più importanti. I danni finora stimati ammontano a oltre 200 milioni di euro.  Il governo di Parigi ha inviato sul posto altri 600 gendarmi (il contingente-base di stanza nell’arcipelago è di 1.800 agenti), imponendo il coprifuoco, dalle 18 alle 6 del mattino, e chiudendo l’aeroporto principale, La Tontouta, ai voli commerciali: circa 3.200 turisti, molti dei quali australiani e neozelandesi, sono rimasti bloccati per più di una settimana sull’isola. Soltanto martedì scorso Australia e Nuova Zelanda hanno avuto il “via libera” dalla Francia per l’invio dei primi voli di evacuazione.

La scelta della Francia: emarginare gli indigeni

I gruppi indigeni indipendentisti, discendenti dei primi abitanti dell’arcipelago prima della colonizzazione francese, contestano alla radice la decisione dei parlamentari francesi di ampliare la platea degli elettori (saranno circa 25mila in più), leggendola come un tentativo di consolidare il proprio dominio sulla Nuova Caledonia (che a Parigi chiamano Le Caillou, la roccia). E come uno “strappo” delle regole stabilite nell’Accordo di Noumea, firmato il 5 maggio del 1998, un difficoltoso punto d’equilibrio raggiunto con la parte più dialogante dei separatisti al termine di un’epoca di violenti scontri che toccò il suo culmine negli anni 1984-1989 (fondamentali furono gli accordi di Matignon-Oudinot nel 1988). Ebbene, nel “Documento di orientamento”, al capitolo 1, l’Accordo di Noumea stabiliva: “L’organizzazione politica e sociale della Nuova Caledonia deve tenere maggiormente conto dell’identità Kanak”. Il Senato francese ha invece ritenuto che, 26 anni dopo quella firma, si rendeva necessario “riequilibrare” quella disuguaglianza politica, in modo che le istanze degli indigeni Kanak e quelle dei discendenti dei coloni francesi avessero uguale riconoscimento. Per i nazionalisti indigeni è un affronto. Mentre i “lealisti” francesi sostengono che dopo l’esito dei 3 referendum sull’indipendenza della Nuova Caledonia, che si sono tenuti tra il 2018 e il 2021, tutti conclusi con una maggioranza di voti contrari, era indispensabile mettere mano a una riforma che rendesse il sistema elettorale più equilibrato. Ma la questione, com’è evidente anche alla luce delle vicende più recenti, è tutt’altro che risolta. Gli indipendentisti, che nel referendum 2018 erano stati sconfitti con il 56,7% dei voti, e poi con il 53,3% nella consultazione del 2020, sostengono che l’ultima consultazione del 2021 sia stata “viziata” dalle decisioni delle autorità francesi, che non avevano concesso un rinvio del voto, come richiesto invece dagli indigeni Kanak per via dell’impatto drammatico che la pandemia da Covid 19 aveva avuto sulla popolazione locale. E che, per protesta, avevano disertato in massa il voto (alla fine il 97% dei voti era stato contro l’indipendenza). Il Fronte Indipendentista non si era affatto arreso, sperava in una nuova chance, in una nuova consultazione: ma questa riforma elettorale rischia di diluire ulteriormente e definitivamente il peso della popolazione indigena (un tempo era maggioranza, ma oggi è pari al 40% degli abitanti) sulle future decisioni. Come scrive The Conversation: «Negli anni 80 le campagne violente erano coordinate dai leader Kanak. Erano organizzati. Erano controllati. Al contrario, oggi sono i giovani a prendere l’iniziativa e a usare la violenza perché sentono di non avere altra scelta. Non c’è coordinamento. Agiscono per frustrazione e perché sentono di non avere “altri mezzi” per essere riconosciuti». Protestano per le disuguaglianze, di ricchezza, di opportunità; per la disoccupazione, per i salari troppo bassi, per lo spettro della disoccupazione, per un’integrazione mai del tutto realizzata. Come commenta la rappresentante di un’organizzazione di donne indigene: «Il voto di Parigi spinge il popolo Kanak nella fogna».

Da qui le proteste, gli scontri, le violenze che hanno portato alla morte di sei persone (4 manifestanti kanaki e 2 gendarmi della polizia francese) e all’arresto di circa 200 persone. «La violenza non è mai giustificata o giustificabile: la priorità per noi è ristabilire l’ordine, la calma e la serenità», aveva commentato a caldo il primo ministro francese Gabriel Attal. «Il ritorno all’ordine è il prerequisito per qualsiasi dialogo», aveva poi rimarcato Emmanuel Macron, dopo aver invitato a Parigi i leader degli opposti schieramenti per imbastire un dialogo. Tutto inutile: al punto che il presidente francese ha deciso di recarsi personalmente a Noumea (non proprio dietro l’angolo: quasi 17mila chilometri in linea d’aria, un volo di linea impiega di norma 23 ore) proprio nella speranza di allentare le tensioni e di riallacciare i fili spezzati del dialogo tra le parti. Della missione, atterrata ieri sera a Noumea, fanno parte anche il ministro dell’Interno, Gérald Darmanin, la responsabile dei Territori d’Oltremare, Marie Guévenoux, e quello delle Forze Armate, Sébastien Lecornu. Macron, come filtra dal suo entourage, esprimerà la sua solidarietà ai neocaledoniani e stabilirà un ultimatum  (entro la fine di giugno) per riallacciare il dialogo tra le parti, ma senza concedere alcun passo indietro sul progetto di riforma elettorale: è improbabile che i nazionalisti kanaki lo accolgano a braccia aperte. Altrettanto impervio, su queste basi, costruire un accordo che abbia un minimo di stabilità.

La grande incognita del nichel

Il calibro della delegazione dice comunque molto di quanto la questione della presenza francese nell’indo-pacifico sia centrale nella politica dell’Eliseo. E il controllo della Nuova Caledonia è strategico per Parigi sia da un punto di vista militare (l’esercito ha sull’arcipelago basi aeree e navali) sia economico, per lo sfruttamento delle risorse naturali, su tutte il nichel (è il quarto produttore al mondo dopo Indonesia, Filippine e Russia), anche se nel primo trimestre di quest’anno la produzione è calata del 32%. A causa del crollo dei prezzi, i tre grandi impianti dell’arcipelago sono a forte rischio di ridimensionamento, il che porterebbe a licenziamenti e a una crisi economica di difficilissima gestione. Macron deve inoltre guardarsi dall’opposizione interna: da sinistra, con Jean-Luc Mélenchon che ha criticato il presidente per aver stravolto i principi contenuti nell’Accordo di Noumea; ma anche da destra, con Marine le Pen che propone una “soluzione globale” che affronti le croniche disuguaglianze economiche e sociali tra i Kanak e le popolazioni non indigene, oltre a sostenere lo svolgimento di un quarto referendum sull’autodeterminazione, tema assai gradito alla popolazione indigena. Interessante l’analisi di Denise Fisher, ex console australiana a Noumea, pubblicata pochi giorni fa dall’Aspi (Australian Strategic Policy Institute): «Negli ultimi decenni la Francia ha fatto molto per riconquistare l’accettazione e la fiducia della regione. In risposta alla viscerale opposizione dei governi insulari alle sue politiche negli anni 80, la Francia ha abbandonato i test nucleari nell’area e ha dato maggiore autonomia ai suoi territori del Pacifico. Lo ha fatto rispettando i governi locali e le persone. Il presidente Macron ha articolato una visione indo-pacifica per la Francia che è saldamente basata sulla sua sovranità nel Pacifico. Ma, per mantenere le pretese della Francia come potenza indo-pacifica, deve ascoltare la grande e crescente minoranza indigena nel suo preminente territorio del Pacifico, la Nuova Caledonia. E deve ascoltare gli appelli dei governi delle isole del Pacifico, in modo che loro e la Francia possano andare avanti insieme con umiltà e rispetto».

Il Movimento Internazionale dei Popoli Indigeni per l’Autodeterminazione e la Liberazione (IPMSDL) ha espresso la sua solidarietà e vicinanza ai Popoli Indigeni della Nuova Caledonia «nella rivendicazione del loro diritto all’autodeterminazione, mentre il governo francese continua a stringere la morsa del dominio coloniale e a bloccare il loro processo di decolonizzazione». Una posizione che si sta facendo largo anche in Australia. Sostiene Mark Brown, presidente uscente del Forum delle Isole del Pacifico e primo ministro delle Isole Cook (territorio neozelandese): «L’Australia, in quanto nazione che sostiene a livello internazionale i principi democratici, e che dichiara pubblicamente la sua affinità con la famiglia del Pacifico, non dovrebbe più tacere su questa questione. Quanto sta accadendo in Nuova Caledonia dimostra perché deve cambiare la sua politica estera per sostenere con urgenza la decolonizzazione». Stati Uniti e Cina, i principali attori in lizza per il dominio nell’Indo-Pacifico, per il momento restano in osservazione, in attesa. Mentre la Francia ha accusato apertamente l’Azerbaigian di aver fomentato e addirittura finanziato le forze indipendentiste della Nuova Caledonia. Baku ha respinto le accuse («dichiarazioni offensive e infondate), ma è vero che durante le manifestazioni dei giorni scorsi diversi manifestanti pro indipendenza hanno sventolato bandiere azere.

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012