SOCIETÀ

Il futuro dell'Africa in un telefonino

Una donna masai, scalza, seduta tra la polvere del suo villaggio sperduto in mezzo all’Africa, e il telefonino all’orecchio. Guerrieri o mandriani che messaggiano sotto il sole della savana. È la rivoluzione mobile dell’Africa, quella che silenziosamente sta cambiando le abitudini e le prospettive economiche e sociali di un intero continente. Dopo il boom della Cina, delle economie asiatiche e dei Brics, sarà l’Africa a sorprenderci e accadrà nel prossimo decennio.

Oltre 700 milioni di sim in un territorio in cui per gran parte le linee telefoniche fisse sono un lusso di pochi, le infrastrutture sono assenti, i conti in banca quasi inesistenti. E in cui da almeno un decennio le ricariche telefoniche sono utilizzate al posto del denaro contante come pagamento per il consumo di beni, un’abitudine tanto diffusa che Vodafone ci ha costruito un servizio di moneta elettronica, M-Pesa. Un successo tale che un terzo del Pil del Kenya pare sia prodotto con questi pagamenti. Gli operatori del settore scommettono da anni sul mercato della telefonia mobile e dei servizi collegati, in un mercato che attualmente è secondo solo alla Cina e in cui c’è ampio spazio per le applicazioni commerciali (m-commerce), educative (m-learning), o di assistenza medica (m-health).

Se gli utilizzatori vedono nel telefonino una nuova, insperata modalità di contatto tra città, villaggi e la cosiddetta Diaspora, cioè amici e parenti emigrati, gli analisti rilevano sul medio-lungo periodo – in particolare per le regioni subsahariane – la necessità di una integrazione regionale per ovviare alle carenze di stati troppo piccoli; la possibilità di maggiore trasparenza e informazione collettiva con la conseguente tendenza di dittatori o élite corrotte a frenarne la diffusione; il progressivo rinsaldarsi dell’asse Sud-Sud, con l’Africa che guarda ai Brics e agli altri paesi emergenti come possibili partner; lo sviluppo di una imprenditoria locale specializzata in servizi mobile che esporterà presto la propria expertise anche nel ricco occidente.

Che lo scenario africano possa essere un fecondo terreno di sperimentazione e di innovazione è un dato certo. La necessità è madre dell’ingegno. Ecco quindi il grande interesse agli aspetti linguistici, con telefoni dalle interfacce semplici, capacità di tradurre in più lingue o dialetti e applicazioni text-to-speech che possono essere utilizzati anche dagli analfabeti. Oppure servizi di semplice messaggistica, utilizzabili anche nei cellulari più vecchi e meno smart, che tengono informati i contadini e gli allevatori, mentre le autorità sanitarie possono avvisare e controllare i pazienti delle zone rurali. Dato l’uso prevalentemente pragmatico e non ludico del cellulare nelle zone rurali, si prevede che questo diventi per molti africani lo strumento principale di dialogo tra cittadini e istituzioni, con la messa a punto anche di app di tipo amministrativo, mentre è pensabile che piccole strumentazioni mediche collegabili al telefonino lo rendano di fatto un “coltellino svizzero” utile per ogni necessità.

Se tutto questo è in gran parte già vero per l’occidente (dove peraltro persistono insospettabili enclave di digital divide e prevale ancora l’utilizzo ludico del cellulare), quel che è interessante è la rapidità di progresso educativo ed economico che queste tecnologie consentono nel giro di pochi anni in zone difficilmente raggiungibili altrimenti e quindi finora rimaste ai margini dello sviluppo tradizionalmente inteso. E nell’Africa subsahariana la tecnologia mobile, leggera e trasportabile può fare la differenza. Alla carenza di una rete elettrica in gran parte del territorio si sopperisce con batterie ricaricabili con energia solare. Alla mancanza di componenti elettronici originali si compensa con il riciclo dalle discariche.

Tra le molte applicazioni che nascono per e nell’Africa mobile, non possono non colpire – per la loro disarmante semplicità – la lampadina a energia solare, la cannuccia/depuratore che permette di bere in sicurezza direttamente dagli stagni e dai corsi d’acqua, la fabbricazione di calzature su misura grazie alla stampa in 3D, la creazione di oggetti in vetro, sempre grazie a una stampante in 3D assemblabile anche con gli scarti delle discariche e che per funzionare si nutre solo di sabbia e luce solare.

Tecnologie di importazione occidentale finora, certo, ma solo in attesa di una rivisitazione locale, con nuovi approcci e nuove idee. Un serbatoio di futuro per una continente che non vede l’ora di crescere.

Cristina Gottardi

Donna masai; a destra, stampante 3D a energia solare

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