SOCIETÀ

Le grandi coalizioni possono durare?

Negli ultimi anni sembra che la tradizionale dinamica politica in Europa e negli Stati Uniti si sia invertita. Secondo lo schema classico adottato dalla scienza politica, i Paesi europei erano caratterizzati da forze politiche con identità marcate, definite lungo l'asse conservatori/progressisti, destra/sinistra; da elettori legati ai partiti da un chiaro senso di appartenenza; da visioni del mondo ben distinte sui rapporti fra stato e mercato, sul ruolo della famiglia, sui diritti individuali e collettivi, sul welfare. Viceversa, gli Stati Uniti avevano partiti disomogenei al loro interno, più pragmatici e pronti alla collaborazione su questioni di rilevanza nazionale, meno contraddistinti da visioni differenti della società, in competizione per la conquista di un elettorato mobile, che poteva scegliere di votare l'uno o l'altro senza particolari problemi. 

Questa analisi dopo il 1990 è andata perdendo forza, a causa di un progressivo avvicinamento delle dinamiche europee a quelle americane. L'espandersi della classe media, la fine della guerra fredda, il diminuito ruolo delle forze sindacali e dei richiami religiosi, l'accresciuto peso dei mezzi di comunicazione e delle campagne su singole questioni hanno infatti reso il rapporto dei cittadini con la politica più fluido e distaccato, come dimostra anche il regolare calo della partecipazione al voto nell’Unione Europea. Tipica l'evoluzione della Gran Bretagna: dalla contrapposizione frontale di conservatori e laburisti degli anni Cinquanta e Sessanta al New Labour di Tony Blair e dei suoi successori.

Vanno in questa direzione le “grandi coalizioni” o “governi di larghe intese” che nella politica europea sono diventati frequenti anche in paesi tradizionalmente alieni da questa formula. Gli ultimi tre governi italiani sono stati composti e sostenuti insieme da forze politiche di centrodestra e centrosinistra, la Grosse Koalition tedesca è al governo dallo scorso anno dopo la precedente esperienza del governo Merkel dal 2005 al 2009, in Austria governa una coalizione di popolari e socialdemocratici e un simile accordo tra laburisti e popolari ha dato origine al secondo governo Rutte in Olanda. E nel Regno Unito, dal 2010, è al potere un’alleanza tra conservatori e liberal-democratici che sarebbe apparsa impensabile solo pochi anni prima. Attualmente, dei 28 paesi membri dell’Unione Europea, nove sono governati da partiti di sinistra, otto da partiti di destra e i restanti 11 da coalizioni tra le due forze. 

La grande coalizione è un’opzione di routine per paesi come Svizzera, Austria, Finlandia e Germania, storicamente abituati a un approccio di governo di tipo “consensuale” mentre è una novità per paesi come l’Italia o la Grecia, dove in passato profonde fratture sociali generavano durevoli fedeltà a un partito e impedivano di fatto la nascita di coalizioni eterogenee, non a caso denominate oggi in questi paesi “governi di unità nazionale”. A differenza degli Stati Uniti, però, questa tendenza non è determinata dalle strategie di conquista del centro, dalle caratteristiche delle basi elettorali o dalle mutate percezioni degli elettori. A obbligare partiti storicamente avversi a condividere le responsabilità di governo è stata nella maggiore parte dei casi la crisi e le conseguenti misure di austerità imposte dall’Unione Europea, il tutto aiutato da sistemi elettorali a base proporzionale. 

Mentre però l'Europa pare convergere sul modello statunitense, negli ultimi anni la politica Usa sembra allontanarsene, polarizzandosi sempre più. Negli Stati Uniti, l’ondata di radicalizzazione della politica continua a salire. Un recente e dettagliatissimo studio del Pew Research Center mostra come repubblicani e democratici siano oggi più divisi che mai. Gli americani che si identificano come coerentemente "conservatori" o coerentemente "progressisti" sono raddoppiati negli ultimi 20 anni, mentre coloro che si definiscono moderati sono molto diminuiti. Soprattutto, è cresciuta l'avversione reciproca: nel 1994 solo il 17% dei repubblicani aveva un’opinione molto negativa del Partito democratico, una percentuale oggi salita al 43%, mentre il 16% dei democratici che consideravano molto negativamente il Partito repubblicano sono ora diventati il 38%. Addirittura, il 36% dei repubblicani considera i democratici “una minaccia per il benessere della nazione”.

Conservatori e progressisti sembrano divergere su ogni questione, perfino su dove vogliono vivere, quali persone frequentare e chi accettare in famiglia. Quasi due terzi dei conservatori e circa la metà dei progressisti afferma di considerare amici cari solo persone con le quali condivide le idee politiche. I repubblicani ormai ricordano le classiche forze di destra europee, mentre i democratici sono più affini alla nostra idea di centrosinistra. Parallelismo che rappresenta un significativo mutamento rispetto a quello che erano i partiti americani fino a 20-30 anni fa, con caratteristiche che spesso non replicavano la classica divisione destra-sinistra di stampo europeo. La struttura stessa dei partiti americani sta cambiando: se fino a una decina d’anni fa essi risultavano poco più che dei comitati elettorali che entravano in azione solo in vista delle urne, ora entrambi i partiti sono più coesi, strutturati e svolgono un’azione costante sul territorio. Le organizzazioni di partito sempre più spesso finanziano ciascuna corsa elettorale - cosa inusitata fino a qualche tempo fa - per di garantirsi l’allineamento parlamentare dell’eletto. I dati sulla fedeltà del singolo parlamentare alla disciplina di partito sono infatti cresciuti costantemente negli ultimi 25 anni, così come confermato da numerose statistiche in materia

Questa situazione è anche il frutto della progressiva scomparsa dei repubblicani moderati e dei democratici conservatori, con i primi che venivano generalmente eletti nel Nordest del paese e i secondi nel Sud. Nelle elezioni congressuali del 1972, nei sei stati del New England vennero eletti 15 democratici e 10 repubblicani, 30 anni dopo il risultato è stato di 20 democratici e due repubblicani. Nel Sud del 1972 vennero eletti 91 democratici e 42 repubblicani, nel 2012 il risultato è stato di 107 repubblicani e 47 democratici. E sono oramai molto diverse le caratteristiche delle due basi elettorali: bianchi, maschi, di età elevata e di buon reddito i repubblicani. Giovani, donne, minoranze e un reddito medio inferiore per i democratici. Una polarizzazione parlamentare che è difficile dire se preceda o segua una polarizzazione sociale, ma che va approfondendosi sempre più, con la conseguenza di un Congresso diviso nel quale sono pochi i risultati legislativi che si riescono a ottenere soprattutto quando la maggioranza è di orientamento politico opposto a quello del presidente, come accadrà a gennaio. 

L'antica distinzione si riproporrà quindi a parti invertite? Forse, ma potrebbero esserci sorprese. Anche in Europa si assiste a una crescente polarizzazione sociale, e diverse delle ragioni alla base della collaborazione fra forze opposte appaiono più contingenti che strutturali. Determinante è stato il fatto che nessun partito o raggruppamento elettorale ha potuto raccogliere un consenso sufficiente per realizzare politiche efficaci in un’ottica di lungo periodo ma assai impopolari nell’immediato. E non è un caso che anche in passato le grandi coalizion" siano spesso nate in momenti di profonda crisi, come in Gran Bretagna durante la seconda guerra mondiale e in Germania durante la drammatica esperienza della Repubblica di Weimar. 

I governi di unità nazionale pongono infatti un problema di chiarezza e coerenza nel rapporto tra elettore e partiti. Nel momento in cui sinistra e destra, non avendo conseguito una chiara maggioranza, scelgono di allearsi, che cosa ne è dei rispettivi programmi, opposti su molti dei punti più qualificanti per gli elettori delle due parti? In che modo potranno i politici votati dall'uno e dall'altro giustificare i prevedibili cambiamenti di rotta? Il rischio è quello che l'elettore si senta tradito e reagisca togliendo il proprio sostegno al partito rifugiandosi nell’astensionismo. Come in Gran Bretagna, dove alle elezioni politiche del 2010 i liberal-democratici ottennero il 23% dei voti, quasi il loro massimo storico, e i conservatori la maggioranza relativa dei seggi parlamentari. I lib-dem decisero allora di entrare nella coalizione a sostegno del primo governo Cameron: una scelta percepita appunto come un tradimento da gran parte della loro base elettorale storica, molto distante dagli ideali dei Tories. La mossa del leader Clegg è riuscita a portare i lib-dem per la prima volta al governo ma ne ha fatto precipitare reputazione e consenso. Oggi, secondo i sondaggi, non andrebbero oltre un risicato 8%.

Marco Morini

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