CULTURA

Ian McEwan, l’arte di inventare storie

Ha scritto 15 romanzi, tre raccolte di racconti, un paio di libri per bambini, trasponendone per il grande schermo una buona parte (prossimamente nelle sale Chesil Beach e La ballata di Adam Henry). Ogni volta quella che mette sulla pagina è una storia totalmente nuova, che nulla ha in comune con le precedenti: Ian McEwan non è uno che si ripete. Non nelle forme ‒ dal romanzo breve a quello corposo, fino alla prova con echi teatrali ‒ né nella trama o nelle ambientazioni. Impossibile essere esaustivi: dalla Londra dei giorni nostri (La ballata di Adam Henry, Sabato) al fronte della seconda guerra mondiale (Espiazione), alla caduta del Muro (Cani neri), alle operazioni dell’agenzia di spionaggio MI6 (Miele), passando per quei luoghi e quei tempi che non hanno segnato la storia collettiva ma solo quella degli individui, dei suoi personaggi; ha scritto storie di singoli ‒ uno scienziato meschino (Solar), un neurochirurgo (Sabato) ‒ come di coppie (Chesil Beach) o di triangoli (Cortesie per gli ospiti), di giovanissimi ‒ Briony di Espiazione ‒ come di persone di mezz’età ‒ Fiona di La ballata di Adam Henry ‒. Insomma è quello che si dice un vero romanziere: il suo mestiere è inventare storie. E se stupisce, lo fa con garbo. La sua ultima opera, Nel guscio, inizia così: “Dunque eccomi qui, a testa in giù in una donna”.

La voce narrante è quella di un nascituro senza nome e senza genere, che però pensa più e meglio di un adulto formato. La sua editor gli chiedeva cose come: “Ma come fa a sapere che l’asciugamano è blu?!” racconta al festival Incroci di civiltà organizzato da Ca’ Foscari, che McEwan ha inaugurato ricevendo in quell’occasione anche il premio Bauer per la letteratura, e la risposta è quasi naïf: i romanzi sono tutti, interamente, una menzogna. Inventati. E perciò li prepara bene. La sua attività di scrittore, ha spiegato, va sempre di pari passo con quella della documentazione, cui si dedica diverse ore al giorno. Scendendo nel particolare, fino a quei dettagli all’apparenza superflui che però rendono la lettura gustosa. Un esempio? In La ballata di Adam Henry la musica ha un ruolo fondamentale (pianista dilettante la giudice protagonista, studioso di violino il ragazzo malato di leucemia, testimone di Geova, cui lei deve decidere se salvare la vita imponendo una trasfusione di sangue): il pianoforte lì non è un piano qualsiasi, o banalmente uno Steinway, ma un italianissimo e molto meno conosciuto al pubblico di massa Fazioli.

Quando, leggendo, mi sono imbattuta nel dettaglio, ho telefonato al team dell’ingegner Fazioli, il fondatore dell’omonima ditta che produce pianoforti d’eccellenza e che avevo avuto il piacere di conoscere, e, ingenuamente stupita, ho detto: "C’è un Fazioli nell’ultimo romanzo di Ian McEwan!” e loro mi hanno spiegato che sì, lo sapevano, perché una delle più celebri pianiste inglesi, Angela Hewitt, che suona il Fazioli, è molto amica del romanziere. Chissà quanti dettagli di questo tipo ci sono nei suoi romanzi, quanta verità e vita vera è intessuta indistricabilmente insieme ai frutti dell’immaginazione e della ricerca.

Nel dialogo sul palco del Teatro Goldoni, interpellato dalla sua traduttrice storica Susanna Basso su come faccia a passare dalla fisica allo squash, dalla meccanica alla psicologia, ha raccontato che, per esempio, per calarsi nei panni del neurochirurgo Henry Perowne (cui in Sabato accadono più cose in un solo giorno che in tutta la vita) ne ha seguito uno in carne ed ossa per due anni. “Non so a quante operazioni ho assistito” ha detto. E poi ha raccontato di quella volta che, già bardato con gli indumenti sterili da sala operatoria, è stato raggiunto da un gruppo di studenti i quali, scambiandolo per il docente medico, volevano sapere che operazione sarebbe stata effettuata. Il clippaggio di un aneurisma, ha risposto McEwan, e poi si è profuso in spiegazioni per una decina di minuti. “Non so poi cosa abbiano preso all’esame” ironizza quindi il romanziere.

O ancora, tornando alla sua ultima opera, che per alcuni versi ha i tratti grotteschi delle prime (che gli valsero al tempo l’appellativo di Ian Macabre) ‒ è infatti il racconto, dal punto di vista silente del bambino che la giovane e bella protagonista ha nella pancia, della pianificazione del delitto prefetto: ucciderne il padre per sposarne il fratello ‒ pare che la voce del feto in procinto di nascere gli sia comparsa nella testa mentre era ad una noiosissima conferenza di letteratura. Non sapevo chi fosse e cosa gli sarebbe successo, dice, ma sapevo di avere «il personaggio».

Succede così ai narratori di oggi come di ieri. Come facciano? “Godendo di quello che le persone non riescono più a godere: la solitudine genuina”. Parola di Ian McEwan.

Valentina Berengo

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