SOCIETÀ
Idee per case giocose

Una veduta aerea della città di Padova
Tredici abitazioni singole con giardino, ordinate secondo un sistema di alternanza tra spazi privati e spazi condivisi, situate in un’area verde chiusa e appartata rispetto alle direttrici principali del traffico cittadino, sconosciuta ai più benché a due passi dal centro storico di Padova. Sono il ricordo di un singolare esperimento abitativo dell’immediato dopoguerra.
Costruite più di sessant’anni fa, queste case sono ancora esistenti nella loro forma in gran parte originaria e abitate dalle stesse famiglie che per prime le affittarono tra il 1949 e il 1953. Concepite come elementi prefabbricati modulari (circa 50 mq per ogni modulo, componibili fino ad un massimo di tre) con tetto terrazzato e realizzate in pietra vista, le abitazioni sono disposte l’una di fronte all’altra ai due lati di una stretta strada di recente asfaltatura, ognuna circondata da un giardino rigoglioso, le cui piante eccedono di molto la cancellata, dando al visitatore l’impressione di entrare in un piccolo bosco. All’interno lo spazio era originariamente organizzato come un unico ambiente, una sorta di open space con grandi vetrate per favorire il contatto tra spazio privato e natura circostante.
A disegnare i percorsi della vita quotidiana erano i mobili, alcune pareti provvisorie a scomparsa, oppure paraventi e tendaggi. Una conformazione “fluttuante” che prescindeva completamente dalla divisione tradizionale degli spazi domestici fino a eliminare anche il luogo considerato storicamente il fulcro centrale della casa, vale a dire la cucina. Uno spazio privo di baricentro, in cui nulla era già scritto e in cui erano le persone, con le loro abitudini e le loro azioni e relazioni, a essere di volta in volta chiamate a decidere le funzioni da attribuire al luogo in cui si trovavano.
Un azzardo dalle molte sfumature: costruire case senza (o quasi senza) cucina voleva dire certamente, come sostengono alcune abitanti intervistate, non avere in mente che in quelle case delle persone devono poter abitare, ma anche voleva dire – in quegli anni – sfidare gli stereotipi sui ruoli delle donne tra spazio privato e spazio pubblico. Chi abita lì si trova forzatamente dentro una diversa cornice di realtà, deve fare i conti con altri aspetti e nuove angolazioni dell’azione apparentemente semplice di “abitare.”
Nella mente del loro costruttore le tredici case rappresentavano degli esperimenti, dei prototipi per realizzare abitazioni in serie, funzionali e poco costose (ma comunque originali e moderne) e dar vita a un vasto progetto di completamento del quartiere Vanzo-città giardino, comprensivo di un suo eventuale prolungamento (la “città dei fiori”) oltre le mura veneziane della città e oltre il canale verso la prima periferia ovest, previsto nel piano regolatore del 1953-54. Il progetto, tuttavia, non andrà in porto. A bocciare l’idea il mercato: le famiglie borghesi che si rivolgevano alle imprese costruttrici intorno alla metà degli anni Cinquanta richiedevano abitazioni molto più “visibili”, poste a un passo dal centro storico, cioè dal fulcro degli affari, e non importa se questo voleva dire abitare “in altezza”, sacrificando lo spazio privato che la casa singola avrebbe garantito. Il destino delle tredici case dunque non poteva che essere la demolizione, nonostante l’indubbia originalità delle forme, i nuovi linguaggi utilizzati, la flessibilità delle soluzioni, l’avanguardia dei materiali impiegati. Ma nemmeno il progetto di demolizione va in porto e le case vengono invece affittate.
Sempre nella mente dell’imprenditore/costruttore, le tredici case esposte a Porta San Giovanni avrebbero dovuto rappresentare – nelle forme interne ed esterne - la messa in pratica di ciò che egli aveva visto e assimilato durante un lungo viaggio negli Stati Uniti, effettuato appena finita la guerra e durante il quale aveva avuto l’occasione di vedere all’opera i cantieri di una delle più grandi imprese di costruzioni di edilizia seriale, vale a dire quella di William J. Levitt che nel New Jersey stava realizzando una sterminata “città orizzontale”, formata da migliaia di piccole case singole e che avrebbe portato il suo nome - Levittown.
Tra gli interessi e le letture dell’imprenditore padovano vi erano inoltre diverse suggestioni legate al filone utopistico del socialismo americano di fine Ottocento, che sviluppava e tentava di mettere in pratica l’abitare “sociale”, “solidale”, finanche “collettivo” considerato soluzione di tutti i “mali” – già assolutamente chiari ed evidenti oltreoceano – della città industriale. Utopie applicate all’abitare che avevano portato alla realizzazione di alcuni prototipi di “città”, fatte di spazi privati alternati a spazi comuni pensati per risolvere non solo i problemi dettati dal sovraffollamento della città e dall’inquinamento, ma anche dalle diseguaglianze sociali e per certi versi dalle discriminazioni insite nella costruzione sociale dei rapporti tra i sessi. Le soluzioni ardite che si ponevano in questi progetti del socialismo utopico come l’assenza di spazi definiti nella casa e un’organizzazione creativa delle funzioni della nutrizione (eliminare o destrutturare la cucina), attirano l’attenzione dell’imprenditore padovano sulle possibili variazioni delle forme tradizionali della casa, e sulle possibili interpretazioni dell’abitare, pensieri già peraltro sollecitati dall’incontro avvenuto negli anni tra le due guerre proprio a Padova, nei cantieri dell’università, con un architetto creativo e innovativo come Gio Ponti.
Ciò che aveva colto l’imprenditore della lezione pontiana era soprattutto il carattere “ludico” che poteva assumere la casa, quella dimensione di “libertà creativa” degli spazi del privato che si poteva determinare eliminando le etichette – soggiorno, ingresso, zona notte – che tradizionalmente prendevano gli spazi della quotidianità e che costringevano l’abitazione ad assumere certe forme e funzioni e non altre. Eliminare i muri, aprire alla luce e alla fantasia: un’azione architettonica che nella filosofia pontiana aveva lo scopo di rompere l’inesorabilità della scena domestica a favore di una teatralità e di un gioco delle parti in grado di rinnovare ogni giorno la vita quotidiana. “Giocate dunque con l’architettura!” suggeriva Ponti e poco importa se questo avrebbe comportato il “sacrificio” del fulcro tradizionale della casa, vale a dire la cucina. Le case del villaggio padovano seguono perfettamente questo solco che interpreta in senso giocoso e “libero” i tratti severi del razionalismo: in esse, nonostante i molti rimaneggiamenti interni, sono ancora oggi visibili i segni di questa astratta aspirazione a liberare la casa da modelli precostituiti, a farne qualcosa di nuovo e diverso, anche dal punto di vista delle relazioni tra vicini di casa che questa diversità di assegnazione di senso degli spazi avrebbe per forza comportato.
Gran parte dei primi affittuari delle tredici case (in alcuni casi i figli) abitano ancora oggi quelle case e hanno costituito nel tempo una solida comunità che condivide spazi, servizi, relazioni, tempo soprattutto, ed esperienze. Ciò che risulta particolarmente interessante e sorprendente è il modo in cui gli abitanti hanno letteralmente conformato le loro abitudini e le loro scelte personali di vita alle forme peculiari delle loro case, alla loro preponderante originalità, a quel loro essere “senza cucina”, che ne faceva delle “scatole” senza baricentro. Le interviste condotte di recente tra gli abitanti delle case, in prevalenza donne anziane, vedove e sole, mette in luce una capacità di relazione e di condivisione che se era obbligata e guidata in un certo senso “a causa” delle forma peculiare delle case, oggettivamente diverse da tutte le altre, oggi è invece introiettata come una ricchezza, come l’unica forma di abitare che permette loro indipendenza, ma anche senso di solidarietà e sicurezza. E tutto questo senza che occuparsi continuamente dei propri vicini di casa, condividere continuamente esperienze, tempi saperi e spazi abbia per questo prodotto una comunità chiusa.
Lorenza Perini