CULTURA

India, miti e cultura visti da Occidente

L’India vista dagli occidentali: il paese della povertà materiale e della ricchezza spirituale, emblema dell’esotismo salgariano e insieme antica patria ancestrale. Un rapporto complesso, sfuggente a volte ma fecondo. L’India tra antichità e postmodernità, con la sua sapienza e la sua umanità; l’India del Mahatma Gandhi e della Satyagraha (“forza della verità”, da noi riduttivamente tradotta come non violenza) e l’India che oggi rivendica un ruolo sul proscenio mondiale, sfidando gli antichi colonizzatori.

Proprio il rapporto tra il Subcontinente e la cultura europea è l’argomento di Carmina Indica. Figure dell’India in Occidente dal Settecento a oggi, un volume curato da Luca Clerici, Marcello Meli e Paola Mura e appena pubblicato dalla Padova University Press, a conclusione di un progetto culminato nel 2011 in un convegno nazionale e due spettacoli musicali.

Una storia lunga quella dei rapporti tra le due culture, che però si intensifica soprattutto a partire dal Settecento con la penetrazione delle potenze europee, grazie all’opera di intellettuali inglesi, francesi e soprattutto tedeschi, a partire dal fondamentale Sulla lingua e la sapienza degli indiani, pubblicato nel 1808 da Friedrick Schlegel. Secondo il critico e scrittore il sanscrito è la lingua perfetta, rispetto alla quale le lingue derivate rappresentano stadi successivi di un processo di decadenza; Schlegel inoltre, disgustato dal materialismo e dal razionalismo europei, è fin dall’inizio profondamente attratto dalla spiritualità indiana.

Proprio i tedeschi forgiano l’immagine mitica e spirituale dell’India che si diffonde in tutta Europa: Johann Gottfried Herder è commosso dalla dolcezza degli indiani e dal loro amore per la natura, mentre per Johann Joseph von Görres l’India è l’Urwelt, la terra in cui “l’intero cielo si effonde in magiche visioni” e tutte le immagini “si librano nel profondo della nostra anima come ombre lontane”. Un’influenza che si dispiega anche nella letteratura e nella filosofia, come dimostrano il successo degli studi dei testi sacri hindu, l’influsso del Sakontala tradotto da Georg Foster (1791) sul Faust di Goethe, e le attente riflessioni di filosofi del calibro di Hegel, Schopenauer e Nietzsche. 

È però soprattutto con la pubblicazione nel 1922 del Siddharta che viene lanciata la fondamentale intuizione del Pellegrinaggio in Oriente (dal titolo di un altro libro di Herman Hesse) come fondamentale cammino di riscoperta, innanzitutto di se stessi. Un viaggio, fisico e spirituale, reso popolare in tempi più vicini ai nostri da star internazionali come Beatles, che (assieme ad altri personaggi come Mia Farrow, Mike Love dei Beach Boys, Mick Jagger e Marianne Faithfull) alla fine degli anni ’60 trascorrono un periodo di ritiro presso il celebre Ashram di Maharishi Mahesh Yogi.

Fin dall’inizio dunque l’attenzione degli occidentali si concentra sulla spiritualità, a cui preso si accompagna anche la poesia: da quella religiosa degli inni vedici a quella erotica del Kamasutra. Un rapporto che porta a un’ibridazione e a un arricchimento, ma che serve anche a ciascuna delle parti come uno specchio per riconoscersi. Proprio in Siddharta ad esempio la filosofia buddista viene usata, secondo i curatori del libro, nella chiave occidentalissima della “rinuncia al mondo”, in uno spiccato sapore di polemica contro la modernità. Lo stesso accade nella recezione e della reinterpretazione di testi e pratiche peculiari come lo Yoga, adattate alla mentalità e alle esigenze dell’uomo europeo. 

A un certo punto poi, tramite gli studi di filologia, l’India acquista anche l’aura dell’antica patria perduta: strane ma evidenti analogie emergono ad esempio dal confronto degli inni vedici con la cosiddetta poesia scaldica della tradizione nordica. L’India è però soprattutto l’immagine dell’“altro”, il soggetto affine ma diverso che serve a delimitare la propria identità. Allo stesso tempo, senza gli studiosi britannici e i filologi tedeschi sarebbe molto difficile oggi sarebbe difficile per gli indiani conoscere approfonditamente la loro stessa cultura. 

Una distanza che a volte si rovescia in una vicinanza persino insospettabile, come ad esempio dimostra l’interesse da parte dei primi nazionalisti indiani per il Risorgimento italiano. Tanto che Mazzini nel 1908 vene fregiato in una delle tante biografie a lui dedicate in hindi e panjabi con il titolo onorifico di Mahatma, ben prima quindi che questo sia attribuito a Mohandas Gandhi. La storia del rapporto tra Occidente e India è quella insomma di un dialogo ricco di reciproci stimoli e inseminazioni. Per riconoscerlo basta il coraggio di andare al di là dei cliché per una conoscenza vera, rinunciando a ricercare nella cultura indiana – scrivono sempre Clerici, Meli e Mura – “le tracce di un’arcaicità perfetta”.

Daniele Mont D’Arpizio

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012