UNIVERSITÀ E SCUOLA
Inglese: soluzione o problema?
Foto: Riccardo Venturi/contrasto
È di questi giorni la notizia che la Corte costituzionale dovrà stabilire la legittimità delle scelte del Politecnico di Milano – e indirettamente di altri atenei italiani – che ha avviato corsi di laurea magistrale e di dottorato interamente ed esclusivamente in inglese. Se da un lato il rettore Giovanni Azzone rivendica la bontà della sua scelta, snocciolando i dati positivi (il tasso di occupazione complessivo dei neolaureati è del 90%, il 23% di immatricolati sono stranieri – 32% contando anche gli scambi – e c’è un boom di richieste alla triennale), dall’altro molti commentatori vedono in questo rinvio alla Corte l’espressione dei dubbi di costituzionalità della legge stessa che ha ispirato le scelte di Milano, ovvero la Legge 240/2010, nota come Riforma Gelmini.
Le decisioni del Politecnico hanno raccolto fin dai primi annunci motivate perplessità di buona parte dell’università italiana che, pur consapevole come in molti ambiti di ricerca l’inglese stia diventando una sorta di lingua franca, si pone dubbi sulle effettive virtù di un nuovo monolinguismo, legato a una lingua straniera spesso per entrambi, docente e discente. Dubbi che riecheggiano anche in questi giorni sulle pagine Facebook dell’ateneo, nei commenti vivaci degli studenti: tra dichiarazioni di principio, confronti con analoghi atenei francesi e tedeschi orgogliosi dell’idioma nazionale, reclami sulle infrastrutture, rivendicazioni sul proprio “diritto al futuro”, anche la consapevolezza che se proprio inglese dev’essere, la competenza linguistica non può essere un optional.
In questi giorni tumultuosi suonano quindi interessanti le considerazioni pragmatiche sulla effettiva qualità della didattica in lingua straniera provenienti da ambiti e tempi non sospetti. I docenti di due università svedesi, ad esempio, si sono prestati qualche anno fa a tenere due volte le stesse lezioni sulla propria disciplina, in inglese e nella propria lingua. A parità di contenuto scientifico, emerse che la lezione in inglese richiedeva una preparazione più lunga e – nella percezione del docente – portava con sé alcuni limiti: minore precisione e approfondimento nella trattazione dell’argomento, un minor ricorso a digressioni e improvvisazioni nell’esposizione, una certa lentezza nell’eloquio, mancata possibilità di correzioni riguardo la proprietà di linguaggio degli studenti. Tutto frutto di una scarsa fiducia nella propria conoscenza della lingua. Ad un altro livello, inoltre, i docenti lamentavano di dover tenere corsi in inglese non per scelta propria ma perché si trovavano a sostituire improvvisamente un collega, e senza un adeguato supporto dall’ateneo di appartenenza.
Per quanto riguarda gli studenti, invece, alcuni mesi fa Teun Dekker dell’università di Maastricht rilevava una possibile difficoltà a intervenire con domande e riflessioni o a prendere appunti in maniera adeguata. Da qui la sua proposta di suddivisione in gruppi piccoli, in cui gli studenti possano sentirsi più a loro agio ed esprimersi con più libertà. Anche John Airey, che a Uppsala si occupa dei problemi dell’insegnamento in lingua seconda, registrava negli anni scorsi l’abitudine degli studenti a prendere pochi appunti e fare domande solo al termine della lezione. Di fronte al rischio concreto che la competenza linguistica finisca per boicottare la competenza disciplinare, Airey proponeva anche un vademecum per il docente perfetto. Con consigli quasi ovvi (creare spazi e opportunità per le domande durante la lezione, distribuire in anticipo il materiale delle proprie lezioni) e altri che richiedono più cura, come offrire il maggior “supporto multi-rappresentazionale” possibile, vale a dire spiegare lo stesso concetto in più modi diversi così da offrire più possibilità per la comprensione. Ma soprattutto, non usare le tradizionali lezioni frontali – da confinare nei podcast on line – e sfruttare invece la presenza in aula per seminari, gruppi di lavoro e ogni altra forma di interazione proficua.
Esperienze diverse, un denominatore comune? L’ambita internazionalizzazione pare risiedere nei contenuti, nei servizi e nella rinnovata qualità della didattica, e non soltanto nella vernice smagliante della lingua eletta.
C.G.