SOCIETÀ

Islam e integrazione: ricominciamo dalla scuola

Per la giornata del 20 novembre il rettore della moschea di Parigi ha indetto una manifestazione di solidarietà dei musulmani di Francia verso le vittime degli attacchi di venerdì scorso e di condanna del terrorismo islamico. “Abbiamo già tante dichiarazioni in televisione e nei giornali di musulmani che si dissociano da questi attentati. Ma saranno capaci di scendere in strada a dimostrare la loro solidarietà? Sarà davvero un banco di prova importante sul piano simbolico”. Lo afferma Marc Lazar, sociologo dell’Istituto parigino di Studi politici, in una lunga doppia intervista concessa a Il Bo e RadioBue.it insieme a Renzo Guolo, dell’università di Padova, anch’egli sociologo, esperto di immigrazione e specialista del mondo islamico. Che da parte sua ribadisce come queste prese di posizione possono solo essere figlie di un reale processo di integrazione. “Con le comunità immigrate – continua – che diventano attori politici attivi, nella rappresentazione corretta – senza distorsioni ideologiche – del mondo islamico nei confronti degli occidentali ma anche nei confronti dei giovani che crescono in seno alle comunità stesse”.

Uno sforzo di comprensione che deve essere naturalmente reciproco, tra immigrati e paesi di accoglienza e che – concordano i due sociologi – non può non partire dalla scuola. Facile a dirsi, più difficile a farsi. Esisteva un tempo in cui la scuola funzionava – per chiunque – come ascensore sociale e si rivelava quindi strumento ideale per l’integrazione. Lazar fa l’esempio di Albert Camus, “nato in Algeria e partito da una condizione di miseria assoluta che grazie a una borsa di studio vede cambiare completamente la sua vita e diventare il grande intellettuale che conosciamo”. Un’esperienza che a Sciences Po a Parigi negli anni scorsi hanno cercato di emulare, e con successo. Consapevoli che un giovane di una famiglia colta e abbiente è sicuramente più attrezzato di un giovane immigrato a superare il severo esame di ingresso alla facoltà, l’università ha deciso di indire un concorso di ammissione mirato per gli studenti provenienti dalle banlieues. Una volta ammessi, seguiti da un apposito tutorato, questi studenti hanno ottenuto gli stessi risultati degli studenti che partivano avvantaggiati, trovando poi impieghi di alto livello. Un’esperienza piccola e reale, insiste Lazar, “che non pretende di essere un modello ma è la dimostrazione che qualcosa si può fare anche oggi”.

Dalle scuole d’élite alla scuola dell’obbligo, cambiano le strategie ma non il fine da raggiungere. Che i giovani immigrati non conoscano la realtà italiana e occidentale, spiega Guolo, rappresenta un grandissimo problema, e la scuola deve offrire proprio questo meccanismo di reciproca conoscenza. Non si vogliono imporre egemonie culturali, ma è giusto che gli stranieri imparino a conoscere noi. E d’altro canto una scuola realmente multiculturale, come sta di fatto diventando la nostra società, non può fermarsi a programmi  – sottolinea Guolo – che sono rimasti fermi a una fase storica ormai passata. “Ad esempio abbiamo bisogno non più solo di Verga, ma anche di altri tipi di contributi, accanto a una maggiore apertura alla storia contemporanea”. Un problema non solo di arruolamento ma anche di formazione dei docenti, con la necessità di investire risorse adeguate per formare insegnati che abbiano questo nuovo sguardo sul mondo.

Sullo sfondo la questione resta però molto più ampia e riguarda il modello di integrazione a cui ci si ispira. E qui le cose si complicano: i due grandi modelli europei di integrazione sono infatti in crisi. Da un lato il modello francese, “repubblicano”, che prevedeva una netta divisione tra la sfera privata (in cui era consentito seguire la propria cultura e la propria religione) e la sfera pubblica, comune a tutti, in cui svaniscono meno i particolarismi culturali. “In altre parole si realizza uno scambio: cittadinanza in cambio di laicità. Ma oggi distinguere pubblico da privato è sempre più complesso”, riflette Guolo, che ricorda come “nelle rivolte degli anni scorsi in Francia si bruciavano le scuole, simbolo della trasmissione dei valori repubblicani, di una promessa non mantenuta e di una integrazione non riuscita. Si chiedeva l’adesione a valori comuni ma non c’è stato in cambio alcun aiuto per uscire dai ghetti e dalla marginalizzazione”. Il modello opposto, quello britannico e nord-europeo in genere, prevedeva l’espressione delle identità individuali ed etniche anche nella sfera pubblica, ma facendo mancare in questo modo un terreno comune di incontro e confronto. L’opinione pubblica inglese si stupì nello scoprire che gli autori degli attentati del 2005 erano giovani delle seconde e terze generazioni apparentemente ben integrati. “Integrati sì – ribadisce Guolo – ma nella loro comunità di appartenenza e non nel contesto sociale più generale”.

Se i grandi modelli di riferimento sono in crisi, “la classe politica sembra però non accorgersene” si preoccupa Lazar. Il primo ministro francese Manuel Valls, ricorda, è figlio di immigrati catalani e ha ottenuto la cittadinanza francese solo di recente. “Per lui il vecchio modello repubblicano ha funzionato ed è convinto che funzioni ancora per tutti. Ma non è più così, e la necessità di ripensare un nuovo modello di integrazione, particolarmente in questi tempi di crisi economica e politica, è un tema che appassiona e divide molto i francesi, anche e forse soprattutto gli specialisti”. E non senza strumentalizzazioni politiche come quelle del Front National che sembra continuare la sua ascesa proprio in questi giorni.

E in Italia? “Nulla. Un modello italiano non c’è”, dice Guolo, “la nostra scelta è stata quella di non avere alcun modello di integrazione culturale”. Con due linee principali di “non intervento” di fatto. La prima, che Guolo definisce di “liberismo sociale, vale a dire: si arrangi la società”. La seconda invece deriva, secondo il sociologo italiano, “da una tradizione culturale più interventista, che però – temendo che i modelli presentassero delle rigidità difficilmente superabili – ha preferito intervenire di volta in volta sui singoli campi legislativi. Ecco quindi una  legge sull’immigrazione, un’altra sulla scuola e così via. Questo implica però che ad ogni cambio di maggioranza queste politiche vengano rimesse in discussione, con passi avanti ma anche indietro”.

Il risultato è che “anche in Italia abbiamo le nostre banlieues”, conclude Guolo. Non delimitate urbanisticamente quanto piuttosto di tipo sociale e culturale: “autoghettizzazioni molto forti che tendono a riprodursi in una forma totalmente estranea al resto della società italiana. Intere aree in cui si sceglie di intervenire fino a che il fenomeno non emerge pubblicamente. Ma prima o poi presenterà il conto”.

Ripartire dalla scuola dunque, ma anche da ogni possibile strumento di integrazione. Per tutte le periferie, e non solo per i giovani immigrati. Per non dover scoprire all’improvviso, come i nostri vicini d’Oltralpe, che il problema non è confinato alle banlieues. Il disagio si insinua infatti anche nelle campagne della Francia profonda dove – racconta Lazar – esistono francesi “autoctoni” che si convertono all’Islam, cercando di dare un senso alla loro esistenza e un antidoto alla sofferenza morale e sociale. Ma inseguendo gli slogan che trovano in rete finiscono per aggrapparsi invece “all’ultima ideologia antagonista e radicale rimasta disponibile”.

Cristina Gottardi

Il video e il podcast completo dell'intervista

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