SOCIETÀ

Gli italiani e gli stereotipi della razza

Chi ha visto l’ultimo film con Checco Zalone, mattatore dei botteghini di quest’anno, ha forse presente il disagio del protagonista nella scena in cui a un tratto si trova a tavola con tre bambini di colore e fede religiosa diversa, tutti figli della sua avvenente ospite. Momento di imbarazzo del resto prontamente risolto dalla simpatia e dalle doti culinarie del protagonista. Un paradigma odierno dell’italiano medio che, di fronte a un mondo sempre più complesso e globalizzato, cerca di superare lo smarrimento attaccandosi alle proprie radici culturali profonde (meglio se gastronomiche) e a una tradizione di secolare tolleranza.

Già, ma è proprio così? In realtà i modelli razziali nel cinema popolare italiano sono sempre stati presenti, anche in anni recenti. Basti pensare a Mamy, la domestica nera di Adriano Celentano ne Il bisbetico domato, campione d’incassi nel 1980. Un personaggio, interpretato dalla brava Edith Peters, che ad oltre 40 anni di distanza sembrava ancora ricalcare gli stereotipi del ‘bravo negro’ stile Via col vento. Per non parlare dei cinepanettoni, i film italiani di maggior incasso nella prima decade degli anni 2000, in cui gli stereotipi razziali (ma anche culturali e di genere) hanno continuato per anni a farla da padrone.

Proprio all’analisi dei contenuti razziali (o razzisti) della cultura visuale italiana è dedicato Il colore della nazione, volume collettaneo appena edito da Le Monnier con la cura di Gaia Giuliani. Un libro che prende vita all’interno di InterGRace, un gruppo di studiosi che si occupano di razza e razzismi nato in seno all’università di Padova e che proprio nei giorni scorsi ha organizzato il suo simposio. La struttura è divisa in due sezioni: la prima alle immagini e agli stereotipi della cultura di massa italiana dal 1945 a oggi, dal cinema alla televisione, mentre la seconda si concentra sulle ricadute concrete di questa narrazione, in particolare negli ambiti della costruzione del consenso e dell’egemonia.

Un quadro complesso quello che esce dal libro, data anche la pluralità degli autori e delle visioni, ma che presenta anche alcune linee comuni. Più precisamente, nota la curatrice Gaia Giuliani nell’introduzione, rispetto al passato fascista e liberalcoloniale nell’Italia repubblicana c’è stato sicuramente un mutamento di linguaggio, a cui però non è corrisposto quello della sostanza del messaggio. Alcuni concetti e slogan evidentemente totalitari e razzisti furono evidentemente respinti dalla nuova cultura egemonica, nel quadro però di una sostanziale continuità nei temi e soprattutto nella sensibilità. In altre parole il razzismo viene rinnegato come principio, lasciando però spazio a una visione che associava comunque il diverso ora al disagio e all’emarginazione, ora alla sensualità peccaminosa e tentatrice (si pensi ai film sexy oppure, per la televisione, alle ballerine del Cacao Mevigliao oppure alle procaci soubrette di Drive-in). 

Il passato razzista e coloniale viene quindi rimosso piuttosto che rielaborato, dando luogo a un’autoassoluzione generale nei miti dell’italiano buono e al ‘colonialismo dal volto umano’. Eppure nei media italiani la questione razziale continua ad essere presente anche nel dopoguerra: a volte sottotraccia, altre in maniera più conclamata. Basti pensare all’attenzione alla questione dei bambini meticci, nati dalle relazioni e spesso anche dalle violenze dei soldati alleati sulle donne italiane. Segno evidente della vergogna della nazione, di loro il giornalista Paolo Monelli scrive, sulle compite pagine della Stampa, come del “frutto di un connubio contro natura, peggio che un incesto, quasi un cieco congiungimento con un animale: chiamalo Ciro, Peppe, Antonio, battezzalo, ma quello resterà sempre qualcosa di estraneo alla razza, alla fede, alla ragione stessa” (cit. a p. 23 del libro). Una questione così sentita che persino don Gnocchi pensò di mandare questi ‘infelici’ in Brasile, partendo dal presupposto che in Italia non avrebbero mai potuto integrarsi. Ben prima quindi di Mario Balotelli, prima stella nera (molto discussa) del nostro calcio, c’era già chi sosteneva con convinzione che “I neri italiani non esistono”.

Quindi? Gli italiani e i media italiani sono razzisti come o addirittura più degli altri popoli? La risposta in realtà è complessa, anche perché è innanzitutto complessa la visione che gli italiani hanno della loro stessa appartenenza razziale. Un’identità mediterranea e frammentata tra Nord a Sud, da millenni sottoposta alle più varie influenze e meticciati, ha sempre costretto l’italiano a non poggiare la sua identità esclusivamente sulle fragili basi di una improbabile purezza del sangue. Persino il Fascismo puntò soprattutto su elementi come il passato imperiale, la cultura latina e il cattolicesimo, e dal punto di vista linguistico preferì spesso il concetto di stirpe a quello di razza (come nel codice penale del 1939). 

E qui c’è un ulteriore decisivo passaggio: proprio perché l’italiano – in particolare il meridionale – non può essere sicuro della sua ‘arianità’, l’incontro con il diverso e l’esotico, lungi dal suggerire una superiorità o una missione civilizzatrice, può aiutarlo a elaborare e a stabilire la sua identità. Gli stessi film popolari a cui abbiamo accennato all’inizio mostrano, secondo Alan O’Leary (autore del saggio del libro dedicato alla Mascolinità e bianchezza nel cinepanettone), una visione dei rapporti razziali molto e meno univoca di quanto si possa immaginare. Dove il milanese Boldi e il romano De Sica, diversissimi tra di loro, si trovano alla fine uniti dalla necessità di affrontare insieme mille peripezie in terra straniera (e non è un caso che la maggior parte di queste pellicole sia ambientata all’estero: Rio, Caraibi, Miami…). Non con il piglio di superiorità dei civilizzatori ma in maniera goffa e ironica, armati della loro faccia da schiaffi e soprattutto della propria incredibile capacità di sopravvivenza. 

Daniele Mont D'Arpizio

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