CULTURA
L’uomo che inventò il pianoforte
Ha inventato lo strumento più famoso e diffuso al mondo, tanto che lo scorso 4 maggio il primo motore di ricerca al mondo lo ha celebrato con un Doodle. Eppure Bartolomeo Cristofori (Padova 1655 − Firenze 1731), creatore del pianoforte, è tuttora sconosciuto ai più perfino a Padova, la sua città di origine. Almeno fino ad ora: nei giorni scorsi è infatti partito il primo Festival Internazionale Bartolomeo Cristofori. I concerti si terranno fino al prossimo maggio (il prossimo 28 novembre presso l’auditorium Pollini), per un evento che dovrebbe avere cadenza annuale, ambendo a collaborare con molte realtà pianistiche italiane e mondiali.
Chi era però Cristofori, e come è arrivato all’invenzione del piano? Personalità schiva, di professione cembalaro, questo artigiano non ha lasciato nemmeno una pagina di diario o una composizione musicale. E pensare che le sue intuizioni stanno alla base dello strumento più famoso e diffuso: ce lo ricordano i tre strumenti che sono arrivati fino a noi, conservati oggi a New York, Lipsia e Roma. Certo all’inizio il cembalo piano e forte è ancora molto diverso da quello al quale siamo abituati: non ci sono pedali, i martelletti sono posti al di sotto delle corde e il suono ricorda ancora quello di una spinetta o di un clavicembalo. “Ci vorrà un secolo per arrivare a una forma e una struttura più simile a quello attuale, che poi inizierà anche ad essere prodotta su larga scala in maniera semi-industriale – Spiega lo storico della musica Sergio Durante –. Nello strumento di Cristofori ci sono però già tutti le caratteristiche fondamentali di quello che poi sarà usato da Mozart e da Beethoven”.
Cristofori matura la sua scoperta durante la sua permanenza a Firenze, dove si era trasferito nel 1688 come custode e accordatore di strumenti presso la corte dei Medici. In riva all’Arno il padovano rimarrà 44 lunghi anni: “Quello di Cristofori fu un vero e proprio caso di fuga di cervelli – continua Durante –. Come molti altri brillanti artisti e artigiani fu attratto dalla figura di Ferdinando di Toscana, uno dei grandi mecenati dell’epoca. Anche se da alcuni indizi possiamo dedurre che nel capoluogo toscano continuò sempre a sentirsi un forestiero, sognando forse il ritorno nella città natale”. Proprio nel palazzo dei Medici, in età già matura, Cristofori partorisce l’idea di uno strumento a tastiera di nuova concezione, dove le corde, invece di essere pizzicate come nel clavicembalo, vengono percosse da martelletti. Un’innovazione apparentemente secondaria, ma che per la prima volta permette di imprimere al suono una serie di gradazioni dinamiche fino ad allora neppure immaginabili: di scegliere appunto di suonare la stessa nota piano o forte. Nasce così il ‘gravecembalo col piano, e forte’, citato per la prima in un inventario degli strumenti appartenenti ai Medici dell’anno 1700: lo stesso in cui sarebbe stato inventato, stando a un’annotazione del musicista di corte Federigo Meccoli.
Per una descrizione del nuovo strumento bisogna però aspettare il 1711, quando se ne occuperà lo storico e letterato veronese Scipione Maffei. E proprio attraverso Maffei il pianoforte inizia a farsi strada al di là delle Alpi: intorno al 1730 inizia a produrlo l’organaro tedesco Johann Gottfried Silbermann, che lo dota dei pedali e lo fa apprezzare personalmente a Johann Sebastian Bach e a Federico II di Prussia. Nel 1732 Lodovico Giustini pubblica invece a Madrid 12 sonate da cimbalo di piano e forte: la prima opera musicale scritta specificamente per il nuovo strumento. Proprio la diffusione all’estero, in particolare in Germania, segna la definitiva consacrazione: “In Italia dopo Cristofori abbiamo poche notizie di cembalari importanti: tra essi c’è un certo Morellato, che opera a Vicenza alla fine ‘700. Per il resto sono gli anni in cui l’Italia diviene via via sempre più periferica nel panorama europeo, anche dal punto di vista musicale. Fino a quando, nel 1797, anche Venezia cade sotto il dominio austriaco”.
Questo tuttavia nei decenni non ha impedito ai tasti bianchi e neri – Ebony and Ivory, immortalati da un celebre duetto da Paul McCartney e Stevie Wonder – di conoscere un successo inarrestabile. La capacità di eseguire simultaneamente tanti suoni quante sono le dita delle mani gli permette di riprodurre praticamente ogni opera o motivo musicale; la possibilità di modulare il suono in crescendi e diminuendi esalta inoltre l’interpretazione, mentre la sua potenza gli permette di esprimersi al meglio anche dentro l’orchestra. “Il pianoforte ha cambiato completamente il mondo di pensare la musica, di comporla e di fruirla, con un impatto paragonabile soltanto all’introduzione del computer – conclude Durante –. Soprattutto dall’800 poi il piano è infatti diventato lo strumento per antonomasia: quello sul quale si studia e si suona, che tutte le famiglie di ceto medio-elevato devono avere in casa. Il modo principale non solo di fare, ma anche di ascoltare musica: non c’erano mica ancora i file mp3!”.
Un primato apparentemente indiscusso, ma che nella seconda metà del secolo scorso è stato insidiato dal diffondersi del suono elettronico e sopratutto dalla chitarra: così multiforme, apparentemente più facile da imparare (almeno agli inizi), meno ingombrante e costosa. Più varia nelle sue innumerevoli versioni o forse anche più vicina alla sensibilità odierna. Eppure ancora oggi il piano continua a resistere come strumento più importante e diffuso, termine di paragone imprescindibile per chiunque faccia musica da un certo livello in su. Una grande storia partita (anche) dalla piccola Padova.
Daniele Mont D'Arpizio