SOCIETÀ

L'evoluzione e l'involuzione del fascismo, nelle illustrazioni

Oltre a violenza, oppressione e guerra il fascismo può aver prodotto anche qualcosa di buono, dal punto di vista estetico e funzionale? L’argomento è delicato e il dibattito riesplode periodicamente: l’ultima volta in ordine di tempo con un articolo del New Yorker, in cui l’autrice si chiede come mai in Italia sopravvivano ancora tanti edifici costruiti durante il ventennio. Una questione che in realtà potrebbe essere trasposta in tutti ambiti culturali: dal mondo del cinema alla pittura, dalla scultura alle arti decorative; furono infatti pochi quelli risparmiati dall’occhiuta attenzione dei funzionari del regime e soprattutto di Mussolini, da sempre fervido sostenitore della centralità della comunicazione di massa. Un terreno nel quale i totalitarismi fecero scuola, con i risultati che purtroppo conosciamo.

Oggi comunque si inizia sempre più a distinguere tra la condanna del regime e il pregio di alcune sue espressioni, anche se non è sempre facile distinguere. Offre questo tipo di spunti di riflessione il saggio della giovane storica dell’arte Priscilla Manfren, assegnista di ricerca al dipartimento dei Beni culturali dell'università di Padova (edito da Scripta edizioni con un saggio introduttivo di Giuliana Tomasella), dedicato a una delle espressioni editoriali più veraci del periodo fascista: La rivista illustrata del popolo d’Italia. In esso l’autrice ripercorre, con un occhio soprattutto alla grafica (splendido l’apparato iconografico) e agli scritti d’arte, le vicissitudini del periodico fondato da Arnaldo Mussolini nel 1923 come mensile illustrato dell’organo ufficioso del PNF, a sua volta creato e a lungo diretto in prima persona dal fratello Benito dopo la fuoriuscita dall’Avanti.

Una pubblicazione che quindi aveva come compito principale quello di diffondere i valori e la visione del mondo fascista, ma anche eclettica e “sontuosa nella forma”, diretta a dare alle masse l’immagine migliore di un’Italia che si dichiarava pronta a prendere il suo posto sul proscenio mondiale. E anche tutt’altro che priva di fantasia e di innovatività, nei singoli contributi come nell’impianto d’insieme: ne sono una spia ad esempio i frequenti cambiamenti nella grafica della testata, che ogni volta sembra entrare in dialogo con la grande illustrazione di copertina, normalmente opera di artisti del calibro di Mario Sironi, Fortunato Depero, Guido Marussig e Bruno Munari.

I primi dieci anni del periodico sono profondamente segnati dalla presenza di Margherita Sarfatti, geniale giornalista e autrice, nonché amante e biografa di Mussolini, i cui numerosi articoli tracciano la linea d’intervento della rivista in ambito artistico. Proveniente da un’importante famiglia ebraica veneziana (il padre tra le altre cose fondò la prima compagnia di vaporetti e si occupò del lancio turistico del Lido), la Sarfatti fu infatti profonda estimatrice e promotrice di artisti come Anselmo Bucci, Gian Emilio Malerba e Mario Sironi, ma anche Donghi, Carrà, De Pisis, Campigli e Severini, per i quali contribuì a mettere in piedi una mostra alla Permanente di Milano che nel 1926 fu inaugurata da Mussolini. Una figura quindi di assoluto primo piano nella cultura di regime, che si occupò del giornale per 10 anni prima di essere rimpiazzata nel 1933, come critico d’arte di riferimento della rivista, da quel Mario Sironi che fin dall’inizio è l’illustratore di punta del giornale e che lei aveva contribuito a lanciare.

Gli articoli sulla storia dell’arte, nonché su manifestazioni come la Biennale di Venezia e la Triennale di Milano, sono comunque un’interessante cartina di tornasole dell’atteggiamento delle élites intellettuali del regime verso il mondo artistico e i suoi principali movimenti, spesso molto più complesso di quanto comunemente si pensi. Se infatti non manca mai l’abituale esaltazione della romanità – per la quale ci si appiglia un po’ a tutto, dalla storia dell’arte all’archeologia – qua e là spunta infatti anche l’apprezzamento verso le avanguardie e per l’arte di Picasso e di Matisse, così come per le forme ben poco classiche dell’arte bizantina e di quella medievale (soprattutto da parte di Sironi), mentre si dimostra meno entusiasmo per il Rinascimento e soprattutto verso l’800, “secolo borghese” per eccellenza, a cui si contrappone l’epoca nuova che tutti i totalitarismi cercano così ansiosamente di interpretare.

Nelle pagine della Rivista illustrata c’è un po’ di tutto: recensiscono mostre, si celebrano artisti come Felice Casorati, Antonio Sant’Elia, Umberto Boccioni e Fortunato Depero, si pubblicano i racconti e gli scritti di Filippo Tommaso Marinetti, spesso illustrati dallo stesso Sironi, ma non manca nemmeno spazio per la di moda. Si intende offrire al popolo una visione ampia della cultura, per istruirlo ed educarlo – ovviamente nelle direzioni imposte dal regime. A volte trattenendo i toni celebrativi, che la Sarfatti e Bottai consideravano controproducenti rispetto agli stessi interessi della dittatura, altre sciogliendo la briglia alla retorica. Quello che però continua ancora oggi a colpire è la qualità grafica di alcune soluzioni, soprattutto delle copertine e delle illustrazioni. Che a distanza di anni continuano a dare un quadro dell’evoluzione – ma anche dell’involuzione – della rivista, che in parte accompagna e riflette quella del fascismo: dall’ottimismo volontaristico dei primi anni ai toni sempre più cupi e volgari del periodo di guerra e delle campagne sulla “difesa della razza”.

Daniele Mont D’Arpizio

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