SOCIETÀ

Stallo in Venezuela: Maduro non molla e la Corte Suprema gli assegna la vittoria

Nicolás Maduro è un dittatore sempre più solo, rinchiuso in un paese, il Venezuela, che ormai da anni gli ha voltato le spalle. Lui resta aggrappato al potere, calpestando ogni regola democratica, grazie alla fedeltà delle sue forze di sicurezza, che ancora eseguono i suoi ordini, come i rastrellamenti dei manifestanti di quell’opposizione che, a ragione, rivendica la vittoria alle elezioni presidenziali di fine luglio, quando il candidato Edmundo González Urrutia ha ottenuto almeno (la stima è per difetto) il 20% di voti in più rispetto al presidente uscente.

Maduro trucca, imbroglia, gioca sporco, anche in maniera goffa, spudorata. Ha dato ordine di non diffondere i documenti ufficiali delle elezioni, perché non può fare diversamente (nemmeno la Corte Suprema, organismo controllato da fedelissimi di Maduro, che poche ore fa ha decretato la sua vittoria ufficiale, è stata in grado di fornire prove oggettive). Ha dato il via a una feroce repressione contro chiunque osi protestare (2400 gli arresti di “terroristi” nei disordini del dopo elezioni, stando alle cifre, non verificabili, fornite dal governo venezuelano). Gli “amici” della sinistra sudamericana, come i presidenti di Brasile e Colombia, di Cile e Messico, hanno ormai preso le distanze. E fa una certa impressione ascoltare le parole tutt’altro che indulgenti pronunciate da Gabriel Boric, giovane presidente progressista del Cile, che per ragioni anagrafiche (ha 38 anni) e geografiche (il Cile non confina con il Venezuela, a differenza di Brasile e Colombia) evidentemente può permettersi il lusso di usare toni più espliciti: «Non ho alcun dubbio che il regime di Maduro abbia tentato di commettere frodi. Perché non hanno mostrato i registri ufficiali del voto? Se avessero vinto chiaramente, avrebbero mostrato i registri. Voglio essere chiaro: il Cile non riconosce l’autoproclamata vittoria di Maduro. Non ci fidiamo dell’indipendenza o dell'imparzialità delle attuali istituzioni in Venezuela. Non convalideremo risultati che non siano stati verificati da organizzazioni internazionali indipendenti dal regime».

Che di regime si tratti lo certifica anche la Missione d’inchiesta delle Nazioni Unite, che la scorsa settimana ha diramato una nota dai toni netti: «Nelle settimane successive al voto, le proteste di piazza e le critiche sui social media sono state accolte con una feroce repressione da parte dello Stato, inducendo un clima di paura diffusa. Le morti segnalate durante le proteste devono essere indagate a fondo - ha dichiarato Marta Valiñas, presidente della Missione d'inchiesta -. E se l’uso eccessivo della forza letale da parte delle forze di sicurezza e il coinvolgimento di civili armati che agiscono in collusione con loro saranno confermati, i responsabili devono essere chiamati a risponderne». Le vittime sarebbero finora 25, la maggior parte delle quali uomini sotto i 30 anni, tutti uccisi da colpi d’arma da fuoco sparati dalla polizia. La Missione sostiene inoltre che tra gli arrestati (detenuti peraltro in condizioni disumane, come ha denunciato pochi giorni fa la ong “Observatorio Venezolano de Prisiones”) ci sono leader e sostenitori di partiti politici, giornalisti e difensori dei diritti umani. Secondo un’altra ong, Foro Penal, sono finiti in carcere anche 129 adolescenti, accusati dello stesso reato degli adulti: terrorismo.

La retorica del dittatore

Nel frattempo il dittatore sudamericano, erede deteriorato del “chavismo” e dell’ideale socialista, incurante della drammatica situazione di povertà che continua a martoriare la popolazione (secondo le ultime stime fornite dalla piattaforma indipendente Hum Venezuela circa il 70% soffre di “povertà multidimensionale”, vale a dire non soltanto in una situazione di reddito insufficiente per l’acquisto di beni essenziali, come cibo e acqua potabile, ma in uno stato di privazione per quanto riguarda l’accesso ai servizi di base, al lavoro, a un’adeguata assistenza sanitaria, alla tutela dei minori in famiglia) continua a nascondersi dietro la sua abituale retorica. Parlando ai rappresentanti del Partito socialista unito del Venezuela (Psuv) e del Grande polo patriottico (Gpp) ha denunciato un “complotto internazionale” contro di lui, sostenendo di essere l’unico a poter garantire la pace in Venezuela: «Non cederò il potere, né mi sottometterò al fascismo», ha ribadito, continuando imperterrito a insultare e a deridere gli avversari storpiandone i nomi (utilizzando la stessa tecnica tanto cara a Donald Trump). Lunedì scorso ha annunciato che proprio in Venezuela si svolgerà, in data da definire, un “congresso mondiale contro il fascismo e il neofascismo”. Mentre la “sua” gente muore di fame, sprofondata in una povertà che ha spinto perfino i giovani delle periferie urbane, un tempo roccaforti del chavismo, a combatterlo nelle strade, a votargli contro, a voltargli le spalle.

Intanto la leader dell’opposizione Maria Corina Machado, costretta a cambiare continuamente rifugi per evitare l’arresto, ha promesso che i manifestanti “non lasceranno le strade” (e manifestazioni di esuli si sono svolte in diverse città all’estero, dall'Australia alla Spagna, all’Italia, nel Regno Unito, in Canada, Colombia, Messico e Argentina). Mentre il candidato presidenziale dell’opposizione, Edmundo González Urrutia, un ex diplomatico in pensione, si è detto pronto a “negoziare una transizione”, chiedendo esplicitamente a Maduro di farsi da parte. «Signor Maduro, rispetti ciò che tutti i venezuelani hanno deciso. Lei e il suo governo dovreste farvi da parte», ha dichiarato in un videomessaggio diffuso sui social media. «Ogni giorno che si ostacola la transizione democratica, i venezuelani soffrono per un paese in crisi e senza libertà. Aggrapparsi al potere non fa che peggiorare le sofferenze del nostro popolo».

Nulla sembra suggerire, al momento, che Maduro possa decidere a breve di fare un passo indietro: ha tutte le intenzioni di rimanere asserragliato nel suo bunker, circondato dai suoi fedelissimi, pronto a inasprire, semmai ce ne fosse bisogno, gli ordini di repressione del dissenso (il 15 agosto l’Assemblea nazionale venezuelana, controllata dal partito del presidente, ha approvato all’unanimità un disegno di legge che consente al governo di limitare le attività delle Organizzazioni non governative, che avranno d’ora in poi l’obbligo di segnalare se i loro donatori sono venezuelani o stranieri). Non ascolterà gli appelli degli Stati Uniti, dell’Organizzazione degli Stati americani e dell’Unione Europea, ma nemmeno quelli provenienti dalle nazioni a lui più vicine, compresa la proposta recentemente avanzata dagli ormai ex alleati Brasile e Colombia, che avevano lanciato l’idea di ripetere il voto, soluzione bocciata sia dalle opposizioni («sarebbe un insulto al popolo, abbiamo già vinto le elezioni») sia dallo stesso presidente. Mentre la situazione economica del Venezuela resta disperata: dopo 11 anni di regime sotto la guida di Maduro il prodotto interno lordo si è ridotto del 75%. E l’inflazione, al pari dell’Argentina, resta tra le più alte dell’America Latina. Secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, circa 8 milioni di persone hanno già lasciato il paese per sottrarsi alla crisi economica e alla repressione: e quel numero è destinato inesorabilmente ad aumentare (soprattutto verso la Colombia). Nella classifica dei paesi più corrotti al mondo, stilata da Transparency International, il Venezuela occupa il 177° posto su 180 paesi.

Il ruolo chiave delle forze di sicurezza

Una situazione di stallo che sarà difficile incrinare. Perché le parole, s’è visto, non sono sufficienti. Come non servono le pressioni internazionali, e nemmeno le manifestazioni di piazza, che invece alimentano la reazione violenta degli apparati di sicurezza vicini al dittatore: le forze armate, la Guardia Nazionale Bolivariana (una forza di polizia militare), i “colectivos” (bande armate irregolari, paramilitari, che da anni agiscono nella più totale impunità e che Maduro chiama “Angeli del Socialismo”), e tre diversi servizi di intelligence, due dei quali, la Direzione generale del controspionaggio militare (DGCIM) e il Servizio di intelligence nazionale bolivariano (SEBIN), erano stati già accusati dall’Onu di aver ripetutamente commesso crimini contro l’umanità.

Scrive il Financial Times, riportando le considerazioni di un ex alto ufficiale delle forze armate venezuelane che ha poi disertato, fuggendo all’estero: «I generali sono come nodi di una rete piuttosto che di una gerarchia. I generali, più che comandanti delle truppe, rappresentano importanti collegamenti con determinati gruppi politici, o economici, o gruppi criminali che possono perciò agire in nome del regime. La loro lealtà è ricompensata da promozioni regolari: il Venezuela ha circa 2.000 tra generali e ammiragli in un esercito in servizio attivo di circa 130.000 uomini, anche se è impossibile ottenere cifre esatte». Secondo il FT l’esercito venezuelano ricopre un ruolo strategico nella gestione di settori chiave dell'economia, come l’industria petrolifera (il Venezuela è il paese più ricco al mondo di petrolio), il controllo dei porti o come l’estrazione illegale dell’oro nella regione amazzonica meridionale dove, sempre secondo il quotidiano statunitense, fornisce protezione ai trafficanti di droga che spediscono cocaina. Scrive il New York Times: «In una vera democrazia, i politici devono ottenere il sostegno della maggioranza degli elettori per mantenere il potere. Nei regimi autoritari, i dittatori sono spesso sostenuti da una ristretta cerchia di figure influenti». Questo vuol dire, come spiega il politologo tedesco Marcel Dirsus, autore del saggio “Come cadono i tiranni”, che «meno democratico diventa un sistema politico, più si fa affidamento su un numero molto piccolo di persone per mantenere il potere. E ciò significa che le forze di sicurezza - non i manifestanti furiosi per strada - rappresentano il pericolo più serio e immediato per Maduro». Scalfire la sua cerchia di protezione. Sempre il NYT riporta il risultato di un’analisi condotta da Erica Frantz, professoressa di scienze politiche alla Michigan State University: «Tra il 1950 e il 2012, quasi due terzi dei 473 leader autoritari che hanno perso il potere sono stati rimossi da “addetti ai lavori” del governo. Ed è proprio per combattere questa minaccia che gli autocrati tendono a dividere le forze di sicurezza in varie unità frammentate, per impedire a qualsiasi “ramo” di accumulare troppo potere. E anche per far sì che le diverse forze di sicurezza si spiino a vicenda».

Un quadro evidentemente ben chiaro anche alla coalizione di opposizione, che poche ore prima del voto, per voce della sua leader María Corina Machado, aveva lanciato un pubblico appello: «Membri delle forze armate, la nazione ha bisogno di voi». Machado comunque non si arrende. E in un’intervista rilasciata a El Pais l’11 agosto scorso ribadiva: «Mai, negli ultimi 25 anni, il regime è stato così debole e noi mai così forti. Sta crollando la farsa di raccontare che questo è un paese polarizzato: le basi del chavismo sono con noi, le basi delle Forze Armate sono con noi. Oggi Maduro non ha alcuna legittimità a causa della sua escalation repressiva, che è l'unica cosa che gli è rimasta. Viene sempre più rifiutato, anche dai suoi alleati, e questo non era mai successo prima. Maduro non sta valutando correttamente le sue opzioni, è trincerato attorno a una leadership militare che è in grado di fare molti danni. La sfida è far capire a Maduro che la sua migliore opzione è accettare i termini di una transizione negoziata. Ma non a scapito del  risultato del 28 luglio: la sovranità popolare non è negoziabile».

Intanto Maduro resta arroccato al suo posto di comando, pronto a tutto («se perdo sarà un bagno di sangue», aveva promesso alla vigilia delle elezioni) pur di non cedere alle pressioni interne e internazionali. Le forze di sicurezza sono, oggi, la sua garanzia e il suo punto debole. I generali possono decidere di restare fedeli al dittatore, mantenendo privilegi e potere, ma anche rischiando di essere chiamati un giorno a rispondere delle proprie azioni (in Argentina, dopo la fine della dittatura militare, più di 1100 ufficiali, dell’esercito e della polizia, sono stati condannati per gli abusi commessi). Oppure possono “agevolare” la transizione verso la democrazia, magari chiedendo in cambio un’immunità che li protegga da future azioni giudiziarie. María Corina Machado sa che la strada potrebbe essere ancora lunga: «Quanto durerà? Nessuno lo sa… ma il risultato sarà un Venezuela libero».

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