SOCIETÀ

Il Venezuela al voto con le minacce di Maduro

Per il Venezuela, ma sostanzialmente per le democrazie dell’intero Sud America, la sfida è epocale: Nicolás Maduro contro tutti. Un presidente che ovunque è considerato un dittatore (accusato di rapimenti, torture, stupri, persecuzioni per motivi politici, e che per tutto ciò è sotto indagine della Corte Penale Internazionale per presunti crimini contro l’umanità), che dopo 11 anni al potere rischia concretamente di perdere la tornata elettorale di domenica prossima, a favore dell’insieme delle opposizioni che si sono riunite in un “cartello” di partiti, formando la Piattaforma Democratica Unitaria (PUD), attorno al candidato Edmundo González Urrutia, un ex diplomatico in pensione, 74 anni, un uomo pacato che nei suoi comizi parla di prosperità, democrazia e pace. I sondaggi indipendenti dicono che González ha un vantaggio di almeno venti punti rispetto al presidente. Però Maduro ha ancora il potere tra le mani e non sembra avere alcuna intenzione di arrendersi. E, soprattutto, è uno a cui piace giocare sporco, senza andare troppo per il sottile. Già nelle elezioni del 2018 (considerate una farsa dalla comunità internazionale) non aveva esitato a dichiarare fuorilegge i principali partiti dell’opposizione, con la risibile scusa di aver boicottato il voto per l’elezione dei sindaci proprio perché ritenevano che le elezioni non fossero eque e garantite. Stavolta no: si sono presentati uniti, sfidando così compatti il Partido Socialista Unido, che governa il Venezuela da 25 anni, da quel 1999 che vide el Comandante Hugo Chavez conquistare la presidenza, fino al 2013 appunto, anno della sua morte. Maduro, ex autista di autobus, classe ’62, era stato accolto come il suo erede, il suo delfino. Ma negli anni della sua presidenza, soprattutto dopo la sua rielezione nel 2018, Maduro ha di fatto tradito il sogno socialista di Chavez trasformando la sua presidenza in un regime che nulla ha fatto per arrestare un collasso economico senza precedenti per il paese, favorendo al contempo il proliferare della corruzione e della repressione sistematica di ogni forma di dissenso, compresa la libera stampa (qui un recentissimo e dettagliato report del Council on Foreign Relations). Oltre 7 milioni di venezuelani sono stati costretti a emigrare altrove per sfuggire alla povertà e alle oppressioni del regime. Si calcola che negli ultimi dieci anni oltre 15mila dissidenti politici siano stati arrestati. Alfredo Romero, presidente della ong Foro Penal, ha riferito pochi giorni fa che attualmente sono 287 i prigionieri politici detenuti in Venezuela, alcuni dei quali privati di qualsiasi contatto con familiari e legali. Solo nel 2024 il governo ha messo in carcere 10 esponenti dell’opposizione. Altri 5, sui quali pende un mandato di cattura, hanno trovato rifugio all’interno dell’ambasciata argentina a Caracas.

Maduro minaccia “un bagno di sangue”

Insomma, tira una brutta aria. Anche perché più si avvicina l’appuntamento elettorale più i toni del regime diventano accesi, espliciti. Lo scorso 17 luglio il presidente Maduro, nel corso di un evento pubblico in una zona popolare di Caracas, ha aizzato i suoi sostenitori dichiarando, testualmente: «Il destino del Venezuela, nel XXI secolo, dipende dalla nostra vittoria del 28 luglio. Se non vogliamo che il Venezuela cada in un bagno di sangue, in una guerra civile fratricida, un prodotto dei fascisti, garantiamo il più grande successo, la più grande vittoria nella storia elettorale del nostro popolo». È un’esplicita minaccia, rafforzata da una successiva dichiarazione del presidente: «Soltanto la nostra vittoria potrà garantire la pace nel paese». Toni che hanno giustamente allarmato le diplomazie internazionali. Gli Stati Uniti, dopo anni di scontri diplomatici e di sanzioni, avevano riallacciato recentemente formali relazioni con il Venezuela chiedendo però lo svolgimento di elezioni “libere ed eque”. Un tentativo da parte dell’amministrazione Biden era stato fatto anche lo scorso anno, con la revoca temporanea di alcune sanzioni nel settore del petrolio, del gas e dell’oro per almeno sei mesi in cambio del mantenimento delle regole democratiche. Maduro aveva accettato, ma le sanzioni erano state subito reintrodotte quando il regime aveva disposto l’esclusione dalla corsa presidenziale  di María Corina Machado, leader dell’opposizione, che lo scorso ottobre aveva vinto in modo schiacciante le primarie. Edmundo González è una seconda scelta, il piano B da giocare in una situazione di eccezionale emergenza. Machado, formalmente esclusa perché accusata di aver commesso “irregolarità finanziarie” quando era deputata, ma che continua a battersi per far sentire la propria voce in campagna elettorale a sostegno di González, aveva poi dichiarato: «Maduro e il suo sistema criminale hanno scelto la strada peggiore per loro: elezioni fraudolente. Ciò che non sta finendo è la nostra lotta per conquistare la democrazia attraverso elezioni libere ed eque». Decine di componenti dello staff dell’opposizione sono stati successivamente fermati o arrestati, compreso Milciades Ávila, capo della sicurezza di María Corina Machado.  

Da qui l’attivismo degli Stati Uniti, preoccupati sia per la crescente influenza che Cina e Russia continuano ad avere nella nazione più a nord del Sud America, sia per tentare di porre un argine al colossale fenomeno delle migrazioni che interessa il confine meridionale degli Usa (circa il 40% dei venezuelani ha già dichiarato che se Maduro manterrà il potere lascerà il paese). E dunque assai interessati a costruire un complesso meccanismo diplomatico che possa garantire stabilità per il dopo-elezioni. Scrive il New York Times: «Gli Stati Uniti possono sostenere il popolo venezuelano nella sua lotta per la democrazia creando uno sbocco legale per Maduro e i suoi alleati, in modo che, se perdono le elezioni, accettino di cedere il potere. Creare una via d’uscita non significa assolvere Maduro o premiare i cattivi comportamenti. Si tratta di smantellare un regime distruttivo senza far precipitare il paese in un caos più grande. I leader dell’opposizione venezuelana, tra cui Gonzalez e Machado, hanno dichiarato che sosterranno i negoziati che potrebbero includere garanzie di non ritorsioni legali per tutte le parti dopo il voto, riconoscendo che la strada verso la democrazia è irta di complessità e compromessi».

Perfino il presidente brasiliano Lula, uno che ha sicuramente a cuore la causa del socialismo, ha sentito il bisogno d’intervenire, di parlare per tempo, di mettere in guardia il suo attuale omologo venezuelano, soprattutto dopo quel comizio dove Maduro ha evocato “un bagno di sangue” in caso di sconfitta del suo partito: «Quelle parole mi spaventano», ha commentato Lula. «Quando perdi torni a casa e ti prepari a correre in un'altra elezione. Se Maduro vuole contribuire a risolvere il ritorno della crescita in Venezuela, il ritorno delle persone che hanno lasciato il Venezuela e stabilire uno stato di crescita economica, deve rispettare il processo democratico». Parole talmente nette da lasciare immaginare che Lula, in caso di sconfitta di Maduro, potrebbe davvero svolgere un ruolo decisivo di mediazione verso una “transizione pacifica”. Mentre Jorge Rodríguez, fedelissimo di Maduro e presidente dell’Assemblea Nazionale, minimizza il problema: «Il chavismo potrebbe accettare una sconfitta elettorale, ma questo non accadrà perché vinceremo. Questa domanda non dovreste farla a me, ma ad altri personaggi che riconoscono solo quando vincono, che non sanno come rimanere all’interno delle regole del gioco democratico».

Un voto pieno di ostacoli e d’incognite

Eppure la preoccupazione della comunità internazionale sul rischio di manipolazione delle operazioni elettorali resta altissima. Una ricerca condotta dall’Observatorio Global de Comunicación y Democracia (OGCD) sostiene che l’86% dei venezuelani dovrà affrontare complicazioni, coercizioni e ostacoli di vario tipo quando si tratterà di esprimere il proprio voto alle elezioni del 28 luglio. «Si tratta di rischi che provengono da più fonti, ma che convergono tutti nell’ostacolare, minacciare, addirittura impedire il libero esercizio del voto», spiegava poche settimane fa a Infobae il sociologo Héctor Briceño. «È possibile che molti di questi elettori votino in condizioni di coercizione sociale, sotto la minaccia di perdita di benefici sociali, o del lavoro». Anche l’Ufficio dell’Alto Commissariato per i diritti umani dell’Onu (lo scorso febbraio la sede venezuelana era stata chiusa, e l’intero team espulso da Caracas, per aver espresso critiche all’arresto dell’avvocata e attivista Rocío San Miguel) ha diffuso all’inizio di luglio un nuovo aggiornamento sulla situazione in Venezuela, in cui ha documentato che la violazione dei diritti umani nel paese è sempre più grave, proprio a causa dei comportamenti delle autorità venezuelane. Volker Türk, avvocato austriaco che dal 2022 ricopre il ruolo di Alto Commissario dell’OHCHR, ha dichiarato: «Da maggio 2023 abbiamo documentato 28 arresti di persone con posizioni dissidenti. Queste pratiche devono cessare immediatamente. Chiedo che ci sia un resoconto delle vittime della repressione». Nel rapporto dell’Onu si legge inoltre che, «nonostante i dati ufficiali indichino una crescita del 5% del prodotto interno lordo nel 2023, il Venezuela deve ancora affrontare seri ostacoli all’accesso al cibo, alla salute e all’istruzione. Le donne, le persone nelle aree rurali e indigene sono proporzionalmente le più colpite». «Il nostro ufficio - ha aggiunto Tusk - ha ricevuto rapporti che suggeriscono che il 74% degli ospedali denuncia una carenza di medici e appena meno, il 73%, di personale infermieristico. Inoltre l’aborto è ancora considerato un crimine, il che porta le donne a eseguire procedure non sicure che possono causare la loro morte». Ma il Venezuela è in gravissima sofferenza per la povertà che continua ad aumentare e che ormai travolge più di due terzi della popolazione. Secondo la piattaforma indipendente Hum Venezuela più di 20 milioni di venezuelani (su una popolazione di 28,8 milioni) hanno bisogno di assistenza e protezione (4,2 milioni di persone, le più a rischio, sono in stato di “grave vulnerabilità”). Scrive Hum Venezuela nel suo ultimo aggiornamento: «Il 94,4% della popolazione non ha un reddito sufficiente per acquistare i beni e i servizi del paniere di base, il che li colloca all’interno della soglia di povertà. Allo stesso modo, il 69,6% della popolazione vive condizioni di “povertà multidimensionale”, che è caratterizzata da gravi deprivazioni concomitanti, derivati dalla riduzione del reddito e del potere d’acquisto. A causa di queste carenze, nel corso del 2023 almeno 9,3 milioni di persone, il 32,1% della popolazione, hanno fatto ricorso a lavori informali o precari per sopravvivere. Allo stesso modo, circa 5 milioni di persone sono finite in lavori rischiosi per la loro integrità o per la loro vita, comprese attività illecite come lo sfruttamento delle risorse naturali o persino la tratta di esseri umani».

Questa è la fotografia, drammatica, del Venezuela oggi: un paese scivolato nel profondo del baratro, nonostante possegga le maggiori riserve di petrolio al mondo (e stia tentando in ogni modo di appropriarsi delle riserve della vicina Guyana Essequiba). Eppure il presidente Maduro perde tempo a “ringiovanire” la sua immagine indossando occhialetti da rocker e facendo balletti su TikTok, sperando così di conquistare consensi tra i più giovani. Mentre Edmundo González continua a tenere la sua linea pacata e conciliante: «Voglio costruire un paese prospero, democratico e pacifico, dove i cittadini si rispettino a vicenda, un paese di tutti e per tutti. Non ho il minimo dubbio che il 28 luglio trionferemo». I suoi principali obiettivi, in caso di vittoria alle elezioni, sono la riduzione dell’inflazione (attualmente è al 64% annuo) e l’aumento dei salari. Più a lungo termine, González vorrebbe trasformare il Venezuela nel “centro energetico delle Americhe”. Bisogna però vedere quale sarà il prezzo dell’eventuale transizione. «Il Venezuela è fondamentalmente una dittatura», ha spiegato Benjamin Gedan, ex direttore del Consiglio di sicurezza nazionale per il Sud America alla Casa Bianca, oggi capo del Programma per l’America Latina del Wilson Center. «Maduro controlla i tribunali, controlla le autorità elettorali, controlla la polizia, la polizia segreta e l’esercito. Quindi, praticamente parlando, potrebbe fare quello che vuole. Quello che farà Maduro dipenderà da quanto è terrorizzato, e da quanto la diplomazia internazionale saprà fare nel tentare di contenerlo». Lo stesso Maduro, assieme a diversi componenti di spicco del suo governo, è accusato di traffico di droga dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti. Se dovesse perdere le elezioni domenica, e se decidesse di trattare la sua uscita (l’insediamento del suo successore è previsto per gennaio 2025), avrà bisogno di concrete garanzie.

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