CULTURA
Lovato e Mussato, i primi umanisti
A fianco della tomba del mitico fondatore di Padova, Antenore, giace anche Lovato De' Lovati, scopritore proprio dei resti poi attribuiti all'eroe troiano
Chissà quante generazioni di turisti e cittadini padovani sono passati, più meno consapevolmente, davanti all’arca con le sue spoglie mortali: in pieno centro a Padova, a due passi dall’università. Giusto a fianco di un altro sarcofago molto più grande: quello del mitico Antenore, che proprio lui aveva identificato in quelle ossa venute fortunosamente alla luce durante uno scavo.
E così, quando anche la sua ora è giunta lo hanno messo lì, vicino al “suo” eroe troiano. Parliamo di Lovato de’ Lovati (1240/41 - 1309): padovano, giudice e letterato nonché padre dell’umanesimo. Il primo insomma ad aver espresso in forma chiara e compiuta quello stile e quel pensiero che di lì a qualche decennio avrebbero cambiato irreversibilmente la cultura europea e, con essa, il mondo intero. Quel mettere al centro di tutto l’uomo, senza il quale non sono pensabili il Rinascimento e la Riforma protestante, gli stati nazionali e la scienza moderna. Due generazioni prima di Francesco Petrarca, comunemente ritenuto l’iniziatore del nuovo movimento culturale.
E chissà quanti, percorrendo la centralissima riviera Albertino Mussato (1261 – 1329), hanno idea della caratura del personaggio che le dà il nome, autore di tragedie e a sua volta allievo di Lovato, nonché continuatore della sua eredità culturale. Due personaggi, Lovato e Albertino, i cui nomi oggi forse dicono poco ai non specialisti, ma che sono all’origine dei quel movimento di pensiero che determinò la fine del medioevo e la nascita del mondo moderno. Questo perlomeno è il pensiero del recentemente scomparso Ronald G. Witt (1932-2017), docente ad Harvard e alla Duke University e considerato uno dei massimi esperti statunitensi di Rinascimento, nel monumentale libro L’eccezione italiana. L’intellettuale laico nel Medioevo e l’origine del Rinascimento (800-1300), appena tradotto da Viella. Una tesi che Witt aveva già espresso nel precedente Sulle tracce degli antichi (pubblicato nel 2000 e tradotto nel 2005), ma che nel nuovo libro riceve il sigillo definitivo.
Già precedentemente alcuni autori italiani, ai quali Witt si ispira, avevano parlato di un “preumanesimo padovano”: lo storico americano però va oltre, scorgendo nell’opera di Lovati e di Mussato tutti i caratteri della nuova mentalità nella sua forma completa e matura. Che vanno da una riscoperta della grammatica latina all’imporsi di nuovi valori, incentrati su una visione più materialistica e laica della vita e sull’affezione patriottica al comune, la città d’origine, superando l’universalismo medievale di cui impero e papato erano le tipiche espressioni.
Soprattutto sono autori laici, che si formano non più nei monasteri e nelle scuole cattedrali ma nelle neonate università o con professori privati: spesso appartengono al ceto dei notai, e verso la metà del ‘200 non si limitano più a studiare il Corpus Iuris giustinianeo ma coltivano anche le lettere, seguendo l’esempio dei grandi autori classici.
Lovato, a differenza di altri umanisti, compone esclusivamente in latino le sue poesie. “La natura sconvolge la sua stessa opera e, senza posa, modella la materia in sempre nuove forme – scrive all’amico Compagnino – Siamo canzonati dagli dei, creazione delle loro mani, e non siamo oggi ciò che siamo stati ieri. Così non voglio altro se non godere dei tempi felici e, quando mancheranno cose dolci, morire con dolcezza”. Sono componimenti come questo (scritto tra il 1267 e il 1268), a segnare secondo Witt “l’inizio di una nuova cultura libraria in Italia, che noi conosciamo come umanesimo italiano”: manca in essi ogni riferimento morale o trascendente, mentre in compenso abbondano gli influssi dei classici latini, alcuni dei quali richiamati alla memoria dopo secoli come Tibullo, Properzio e Marziale. Non è un caso che il padovano fosse tra i (pochissimi) autori non classici stimati da Petrarca, anche lui attivo nella città euganea per diversi anni. L’unica sua pecca, secondo il poeta laureato aretino, il non aver messo sufficientemente da parte la professione di giurista, avendo “mischiato le Dodici Tavole con le nove Muse e volto l’attenzione dalle preoccupazioni celesti al rumore delle aule forensi”.
Resta da capire come mai questo piccolo miracolo culturale e storico sia potuto accadere in una realtà eccentrica come Padova, in quel periodo grande appena un quarto rispetto a Firenze e coinvolta in una seria di guerre e conflitti interni che prima o poi l’avrebbero portata nell’orbita di Venezia. Qui Witt si sofferma soprattutto sul maggior spazio dato all’insegnamento della retorica e della grammatica classica, rispetto a una situazione come quella di Bologna, in cui l’impostazione dell’insegnamento era molto più strettamente giuridica e politica.
Sta di fatto che dalla scuola padovana prende vita, secondo Witt, “un universo linguistico di pensieri ed emozioni in cui i valori e i sentimenti cavallereschi e feudali sarebbero diventati letteralmente inesprimibili”. Una costruzione dalla quale nel corso del tempo sarebbe provenuta “la compiuta concezione di una comunità laica, che da ultimo avrebbe avuto un effetto corrosivo sulla società e la cultura medievali”. Una visione forse da approfondire e da dibattere, ma che non può fare a meno di affascinare.
Daniele Mont D’Arpizio