CULTURA

"L'uomo nuovo" sedotto da Hollywood

In una delle molte possibili storie della “mascolinità” in Europa, l’affermazione di un  paradigma di “uomo nuovo” fra gli anni Trenta e Cinquanta del secolo scorso ricopre un ruolo fondamentale. L’immagine è quella di un maschio progettato, costruito, plasmato;  prodotto della retorica nazionalista e allo stesso tempo frutto di forti istanze sociali e culturali. Un uomo nuovo, definibile anche “fascista”, ma che in realtà viene replicato in luoghi e regimi diversi, nell’Italia di Mussolini così come nella Repubblica francese, e che in sé accoglie caratteristiche estetiche e caratteriali che già da tempo andavano maturando in Europa.

Questa è la tesi di Martin Conway, docente all’università di Oxford, presentata al Centro interuniversitario di storia culturale dell’università di Padova. Una posizione che amplia la tradizionale visione localistica e congiunturale per delineare una figura ben lontano dall’essere “unica”, non legata quindi alle realtà di area tedesca e italiana, e in definitiva nemmeno temporalmente isolata.

Secondo Conway, infatti, l’uomo fascista non è che un consapevole progetto di rielaborazione di identità maschile iniziato negli anni Novanta dell’Ottocento con l’obiettivo di emendarla da deviazioni collegate al crimine e al caos sociale. Da questo punto di vista il modello fascista dell’uomo in divisa, virile e fisicamente forte, testimonia una storia di continuità, incanalando le istanze precedenti in un preciso comportamento ideale.

La connessione fra l’uomo fascista e altre forme di mascolinità politicizzata è facilmente riconoscibile analizzando la struttura dei valori di una retorica che trova corrispondenza in numerosi contesti politici tradizionali in Europa. Basta pensare all’enfasi nella virilità e nell’eterosessualità, e di converso la marginalizzazione e la delegittimazione dell’omosessualità, punti fermi  ampiamente sottoscritti nell’Europa del periodo. O all’esaltazione della giovinezza, cliché ricorrente nella retorica, poi assurta a culto.

L’immagine guerriera di uomini guardiani, protettori, strenui combattenti, è associabile, secondo lo studioso britannico, alla figura dell’uomo che lotta nella strada per le proprie idee, come in quegli anni accadeva in Francia, o a Vienna fra gli intellettuali; queste figure interpretavano così un ruolo solitamente associabile al modello fascista senza essere necessariamente tali. Molti di quegli stessi comportamenti non sono estranei all’ottica comunista, soprattutto nei primi anni Trenta, e trovano correlazioni  anche nel modello di uomo rimascolinizzato che andava costruendosi all’interno della comunità cattolica a partire dall’ultimo ventennio del 19° secolo.

Al centro rimane il ruolo dello stato. A questo proposito Conway afferma: “Se il progetto ottocentesco era quello di costruire la nazione, e una coscienza nazionale, quello novecentesco ha l’obiettivo di costruire uomini”.  Ma alla volontà politica  si sovrappongono molte altre componenti che contribuiscono alla definizione del nuovo modello maschile. Di queste fa parte anche il mondo della pubblicità e dei mass-media: “L’uomo fascista era in parte legato all’immaginario hollywoodiano, non essendo che una pallida imitazione di diverse forme di identità maschili espresse con molta potenza da un mondo visuale di nuova circolazione di massa, di giornali, di riviste, di film”. L’identità maschile si lasciava sedurre dalla pubblicità, standardizzandosi, uniformandosi sui modelli estetici e comportamentali che uscivano dalle pellicole in bianco e nero. Uomini in posa come attori americani per farsi scattare una foto: cappello in testa, sigaretta fra le labbra; o intenti a fare sport, la racchetta da tennis stretta fra due mani. Nelle foto private si riflette l’immagine pubblica dell’uomo.

Senza dimenticare il contesto socio economico, molto particolare, della crisi dei primi anni Trenta in Europa, entro cui il modello maschile in questione si delinea. In un momento di disoccupazione maschile di massa, fenomeno radicalmente nuovo in molti Paesi, incombe sull’uomo un particolare senso di minaccia, che tocca profondamente anche gli esponenti della classe media. L’università, infatti, aveva prodotto troppi laureati qualificati, medici o avvocati, che non riuscivano ad affermarsi come figure professionali. Una crisi enorme anche dal punto di vista sociale, quindi, che ebbe effetti laceranti maggiori sugli uomini che sulle donne.

Queste ultime erano invece le protagoniste, al negativo, di atti di sessismo, di forme di pregiudizio, di marginalizzazione. La delegittimazione e l’esclusione delle donne da domini d’azione esclusivamente maschili corrispose alla nascita di una comunità “omofiliaca”,  basata su fraternità e solidarietà.  Si registrò non a caso un incremento degli stupri a partire dagli anni Trenta e fino agli anni Cinquanta, decennio postbellico durante il quale il fenomeno perdurò.

In aggiunta alle violenze sessuali, il quotidiano degli anni Quaranta si popola di una nuova letteratura di atrocità ed eccessi, di violenze non strutturate all’interno di regimi, come nella guerra civile spagnola e nelle guerre di liberazione, con molte vittime, molte delle quali donne. “Ma quella violenza non è semplicemente l’esito di un lavaggio di cervello ad opera della propaganda: in termini comportamentali l’uomo aveva già intrapreso quella terribile direzione”, chiarisce Conway. 

L’essere maschile stava seguendo quindi da tempo un percorso feroce, un escalation verso la brutalità che però subì inspiegabilmente una brusca deviazione dopo la seconda guerra mondiale: si assistette allora a un sostanziale ridimensionamento della violenza maschile, non più socialmente legittimata, che gli studiosi ancora faticano a decifrare. Di questo fenomeno Martin Conway propone una propria lettura: “In realtà il modello non scompare, ma la violenza che sottende viene ricollocata: si sposta nella rappresentazione culturale, nei film, soprattutto in quelli western e in quelli di guerra, che  fra gli anni Cinquanta  e Sessanta trasmettono la glorificazione dell’aggressività. È ricollocata nello sport, attività in cui l’uomo si riappropria della propria mascolinità guardando la propria nazione vincere una partita. Negli anni Quaranta e Cinquanta si trasferisce anche geograficamente, nelle guerre postcoloniali e in terre come l’Algeria, la Palestina, il Kenya”. 

L’uomo nuovo fascista, dunque, in qualche modo si esaurisce, ma non completamente. Ad esaurirsi, almeno in parte, è la sua componente violenta, ma a sopravvivere nel periodo postbellico sono molti altri suoi archetipi, come la figura di protettore della famiglia, di consumatore, di proprietario di un’immagine estetica che gli impone di curare il proprio aspetto. Questi fattori permangono,  contribuendo a formare i modelli maschili successivi, secondo un percorso ancora sconosciuto, non agganciabile a determinate politiche o a specifici regimi. 

Chiara Mezzalira

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