CULTURA

Un Maigret alla scoperta dei migranti

Dopo lo splendido Limonov e il meno riuscito Il Regno Emmanuel Carrère, figlio dell’accademica di Francia Hélène Carrère d’Encausse, torna alla scrittura giornalistica e lo fa mettendo in atto una sorta di esercizio della distanza nel suo reportage sull’accampamento di migranti a Calais: “Io nella Giungla non ci vado – non ancora. Resto in città”. Carrère c’è andato perché lungo le rotte percorse da uomini, donne e bambini ci sono luoghi di passaggio che rischiano di trasformarsi da provvisori e contingenti a stabili, luoghi che sono diventanti simbolo della condizione umana contemporanea: Lesbo, Idomeni, Mineo, il confine tra Turchia e Siria e, infine, Calais, la città francese, dove migliaia di disperati si erano accampati per tentare di passare in Gran Bretagna e dove tutto è blindato e militarizzato per ostacolarne il passaggio.

A Calais, dove si fa esperienza della più rozza e assurda delle politiche migratorie come la chiusura delle frontiere rispetto ad altre più efficaci e solidali, si concentrano, nella zona di una vecchia discarica abbandonata meglio conosciuta come ‘La Giungla’, migliaia di migranti (afghani, siriani, nigeriani, eritrei, sudanesi), i ‘siberiani’, come li chiamano i cittadini di Calais.

Carrère, nel libro adesso pubblicato nella Biblioteca Minima (A Calais, trad. it. di L. Di Lella e M. V. Vanorio, Adelphi, 2016), sceglie di non raccontare le storie dei migranti ma di spostare lo sguardo sulle reazioni degli abitanti di fronte a una situazione difficile e a una concentrazione inedita di esseri umani.

In certe pagine si sente il vezzo del parigino, e in effetti Carrère talvolta sembra un commissario Maigret alla scoperta della provincia francese e della sua “concentrazione di brave persone canute e rubiconde, di gente semplice”. C’è anche, come racconta, una lettera, più o meno anonima, che trova al suo arrivo in albergo (il vecchio hotel Meurice) e che lo accusa, anche lui, di voler speculare su una città che si sente assediata, una città di settantamila abitanti di fronte a settemila disperati.

Carrère inizialmente si tiene lontano dalla Giungla, frequenta il caffè Minck dove è d’uso che chi entra stringa la mano agli avventori presenti, frequenta la sinistra colta della città e i quartieri operai semiabbandonati; prende nota della Calais dei molti disoccupati e del Front National di Marine Le Pen che ha avuto, alle ultime amministrative, quasi il 50% dei voti; riferisce della città dalle cento fabbriche di merletti ridotte ormai a solo quattro. Infine, la città dell’Eurotunnel, sorvegliatissimo dalla società che lo gestisce, che ha fatto “abbattere tutti gli alberi in un’aerea di cento ettari per impedire ai migranti di avanzare senza essere visti e facilitare la videosorveglianza”.

Carrère registra l’arco delle reazioni umane di una città che si sente logorata: la paura, soprattutto, e poi la solidarietà e l’accoglienza dei volontari de L’Auberge des migrants; le ronde xenofobe dei Calaisiens en colère, che tuttavia non vogliono essere definiti razzisti; i razzisti dichiarati di Sauvons Calais (“foutons-les de hors” è lo slogan della loro pagina Facebook); l’insofferenza di chi protesta per il vertiginoso abbandono dei turisti; l’attivismo dei No Borders per l’abolizione di ogni tipo di frontiera.

 Pro o contro i migranti sono espressioni bizzarre. Pro migranti nel vero senso della parola non ce ne sono, dato che nessuno è favorevole ad avere alle porte di una città di settantamila abitanti una popolazione di settemila disgraziati ridotti allo stremo, che dormono in tende di fortuna, nel fango, al freddo e che ispirano, a seconda del carattere di ciascuno, apprensione, pietà o sensi di colpa. Quelli che sono davvero contro i migranti, invece, i fanatici capaci di sbraitare: “Annegateli tutti!” o “Rimandateli a casa loro!” – che in fondo sarebbe la stessa cosa –, quelli, sì, ci sono, ne ho incontrati alcuni, ma non sono certo la maggioranza.

 Le rotte di mare e di terra, gli snodi e i transitori luoghi di passaggio di centinaia di migliaia di esseri umani, l’attenzione agli attraversamenti, e agli effetti di questi attraversamenti piuttosto che alle mete dei profughi, diventano un momento etico nella rappresentazione delle migrazioni che sa mettere in discussione il ruolo dei confini e delle frontiere in un mondo interdipendente.

Nell’Eneide Virgilio racconta le vicende di un popolo sconfitto, in fuga verso l’Italia da una guerra decennale, ne racconta la disperazione, la nostalgia, l’angoscia per il futuro, ma Virgilio racconta anche il Mediterraneo come rotta e come insieme di stazioni intermedie (dall’accogliente Cartagine all’ostile terra dei Ciclopi).

Nell’Eneide, se sospendiamo la cornice provvidenzialistica del poema (i troiani fondatori di Roma), quello che conta è il dolore e l’immenso dramma del “passaggio”, i tanti morti prima di arrivare a destinazione: incute vim ventis submersaque obrue puppis/aut age diversos et dissice corpora ponto (la violenza dei venti che travolge le navi, i corpi dispersi e disseminati nel mare).

Quello che ci restituisce la poesia di Virgilio è una verità che non è quella politica né strumentale a fini elettorali, né quella dei numeri e delle quote dell’Ue: è una verità umana che insegna la pietà.

Centinaia di morti sono disseminati sul fondo del Mediterraneo e quest’estate, quando qualcuno si bagnerà nelle sue acque, non potrà non sentire, remota nella mente, una piccola esplosione nucleare.

Sebastiano Leotta

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