Una manifestazione, a Parigi, subito dopo il risultato del ballottaggio alle elezioni. Foto: Reuters
Le destre europee hanno incassato un triplo altolà nel breve volgere di un mese: prima il voto per il rinnovo del Parlamento di Bruxelles, con la sostanziale tenuta della maggioranza uscente, a dispetto delle “ombre nere” da molti evocate; poi le elezioni nel Regno Unito, che hanno decretato la fine dei 14 anni, discretamente fallimentari, a guida Tories; infine il ballottaggio per le legislative in Francia, dove è stato, invece, clamoroso il ribaltamento rispetto all’esito del primo turno, quando il Rassemblement National di Marine Le Pen aveva conquistato la maggioranza e si sentiva pronto per sferrare l’assalto finale per la conquista del governo. Tre appuntamenti elettorali diversissimi tra loro, per dinamiche interne e per leggi elettorali applicate, con esiti in qualche maniera simili per la direzione indicata dalla bussola, ma che rischiano di essere archiviati con un azzardato e immotivato senso di euforia. Il fenomeno delle destre populiste in Europa, e nel mondo, esiste ancora: è lì, concreto e consolidato, tutt’altro che sullo sfondo. Ha spesso una sola testa (nel senso che i programmi, in grandi linee, sono sovrapponibili) e tanti corpi. E no, non è stato sconfitto, nonostante abbia subìto una brusca e inattesa (soprattutto in Francia) battuta d’arresto. Peraltro, una lettura attenta dei risultati del triplo appuntamento elettorale potrebbe suggerire una maggiore prudenza, togliere qualche decibel al facile entusiasmo e tenere alto il livello di attenzione. Perché ciascuno dei protagonisti di queste tornate elettorali può, a ragione, arrivare a vantare qualche merito: anche coloro che oggi sembrano sconfitti.
Il presidente della Francia, Macron
La “diga” di Macron ha resistito
Partiamo dall’ultimo caso, il più clamoroso. Dal barrage républicain, la “diga” eretta dal presidente Emmanuel Macron a difesa delle istituzioni contro il pericolo di avanzata dell’estrema destra. Proprio lui che con un coup de théâtre aveva indetto elezioni anticipate (molto anticipate: addirittura di tre anni) la sera stessa dell’esito delle elezioni europee, con l’affermazione netta della Le Pen (31%) e il flop dell’alleanza centrista-liberale Besoin d’Europe (14%). Un azzardo che gli aveva attirato una valanga di critiche, soprattutto dopo il primo turno delle legislative, con il Rassemblement National che aveva fatto nuovamente il pieno di voti. Oggi Macron può rivendicare il merito di aver eretto quella diga attraverso gli accordi di desistenza, di aver saputo “guardare oltre”, anche se ha perso la maggioranza relativa all’Assemblea Nazionale (l’alleanza Ensemble! è passata da 254 a 168 seggi, un calo drastico, eppure meglio di quanto prevedevano i sondaggi), anche se ora dovrà sciogliere non pochi nodi per riuscire a mettere in piedi un governo con il Nouveau Front Populaire, l’alleanza dei partiti di sinistra che ha ottenuto il maggior numero di voti e di seggi (e che si è presentata agli elettori proponendo di abolire la tanto contestata riforma delle pensioni e la severa legge sull’immigrazione, approvata lo scorso dicembre). Il rischio concreto è l’ingovernabilità. Però non c’è dubbio che Macron sia ancora oggi pienamente al centro della politica francese ed europea: magari con qualche livido, ma è lì. E il blocco di sinistra? È la prima coalizione per seggi, certo, ma tutt’altro che omogenea, senza un leader riconosciuto a fare da portabandiera e con delle frange tutt’altro che inclini alla mediazione (La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon ha già fatto la voce grossa, senza però avere i numeri necessari per imporre la propria linea) e con un rischio di frattura all’interno dell’alleanza che, almeno a oggi, sembra assai elevato. Mentre il Rassemblement National, penalizzato dal sistema a doppio turno francese e dagli accordi di desistenza, ha comunque ottenuto un guadagno di assoluto rilievo in termini di seggi (da 89 a 143: mai la destra, nel dopoguerra, ha avuto così tanti rappresentanti all’Assemblea Nazionale). Inoltre, in termini di voti assoluti, l’alleanza tra RN e una parte dei Républicains ha ottenuto comunque il maggior numero di preferenze, oltre 8,7 milioni, pari al 32,05% del totale. Per avere un ordine di grandezza: il Nouveau Front Populaire ne ha presi poco più di 7 milioni (25,68%); la “maggioranza presidenziale” 6,3 milioni (23,14%). Questo vuol dire che a sconfiggere la destra di Le Pen in Francia è stato il sistema elettorale, e i conseguenti accordi di desistenza. Non le sinistre, non Macron. Il presidente nel frattempo ha chiesto al premier uscente Gabriel Attal di rimanere ancora in carica fin quando il groviglio delle trattative non sarà sciolto in qualche modo (novità potrebbero arrivare alla fine della prossima settimana). Ma, per governare, la coalizione di sinistra dovrà raccogliere una maggioranza più ampia dei suoi 182 deputati, individuare un candidato “di sintesi” e decidere con chi allearsi, tra Ensemble e i centristi.
Keir Starmer, il nuovo primo ministro britannico. Foto: Reuters
Il caso britannico: laburisti sì, ma non a “valanga”
Discorso in parte simile si può fare per la Gran Bretagna, che si è appena risvegliata dopo il lunghissimo tunnel dell’esperienza di un partito Conservatore sempre più spostato su posizioni populiste e di estrema destra, con l’imbarazzante lascito della Brexit e leader che si sono dimostrati inadeguati rispetto al loro compito: l’eccessivo Boris Johnson, l’incompetente (definizione del quotidiano britannico The Independent) Liz Truss, il testardo Rishi Sunak. Una partita già chiusa sul nascere, con gli ultimi sondaggi che davano il Labour di sir Keir Starmer avanti di 22 punti percentuali (42 a 20). Alle urne, invece, i laburisti hanno ottenuto una vittoria assai più contenuta: 34% dei voti, contro il 24% dei conservatori, ma con Reform Uk (il partito indipendentista di destra di Nigel Farage) appena sotto il 15% (le destre, insieme, sfiorano il 40%). Poi è vero: il sistema elettorale britannico first-past-the-post favorisce una competizione bipartitica e la polarizzazione del voto. E quindi alla fine ciò che conta realmente è il numero di seggi vinti in Parlamento e non la percentuale complessiva dei voti ottenuti. Ma fa comunque impressione vedere che “il trionfo a valanga dei laburisti” (il senso generale dei titoli, all’indomani delle elezioni, è stato questo) si è rivelato un misero +1,6% di preferenze rispetto alle elezioni del 2019, con addirittura un calo di oltre 500mila voti assoluti: che comunque ha fruttato 410 seggi su 650 totali della Camera dei Comuni, con un guadagno di 210 deputati. I Tories ne conquistano 121 (meno 246 rispetto al Parlamento uscente), i LibDem ne ottengono 72, mentre il partito di Farage soltanto 5. Dunque il “merito” di questo risultato è ancora una volta del sistema elettorale (un maggioritario con collegi uninominali a un solo turno, a differenza della Francia che adotta un doppio turno), che ha inciso assai più dell’effettivo voto degli elettori. Sistemi che, piaccia o meno, dimostrano di non essere più in grado di restituire un’oggettiva rappresentanza politica sulla base dei voti espressi.
Quindi attenzione alle eccessive semplificazioni. Soprattutto in Francia la situazione resta assai delicata. La politologa Chloé Morin segnala il “rischio di frustrazione” che potrebbe attraversare gli elettori francesidi fronte all’impossibilità di veder emergere un’alleanza tra il Nouveau Front Populaire e la (ex) maggioranza presidenziale: “Il chiarimento auspicato da Emmanuel Macron non è realmente avvenuto. Agli elettori era stato chiesto di scegliere tra tre differenti visioni del futuro del nostro Paese, e non si può dire che questa scelta sia realmente avvenuta, perché non è emersa una chiara maggioranza”.
Anche il partito di Marine Le Pen (che ora strepita contro “l’alleanza del disonore” orchestrata da Macron e dalle sinistre per impedire la loro ascesa al potere) ha molto da rimproverarsi, soprattutto nella difficoltà palese d’individuare candidati credibili sul territorio (un problema di “rappresentanza”, definiamolo così, che non riguarda soltanto la destra in Francia). La campagna elettorale dei candidati del Rassemblement National è stata costellata da scivoloni e uscite a dir poco inopportune che hanno messo in imbarazzo i vertici del partito. Come scrive il quotidiano La Presse: “Sul campo, decine di candidati del Rassemblement National hanno dato un’immagine di incompetenza, dilettantismo e razzismo disinibito”. Concetto ribadito dal politologo Jean-Yves Camus, esperto nell’analisi dei fenomeni di estrema destra (“RN dimostra una mancanza di credibilità e un problema d’immagine”) e dallo stesso presidente del partito, Jordan Bardella, che all’indomani del secondo turno ha ammesso: «Ci sono sforzi da fare nella professionalizzazione della nostra presenza locale, magari nella scelta di un certo numero di candidati. Lo dico chiaramente: in alcuni collegi elettorali, le scelte che abbiamo fatto non sono state quelle giuste».
E ora i “Patrioti” minacciano l’Europa
Dunque l’estrema destra francese (come anche quella inglese) resta per il momento alla finestra: la spallata non è riuscita, ma è comunque lì ai margini, ferita ma non sconfitta, con numeri assolutamente in grado di condizionare l’attività politica e con un gradimento che resta comunque assai radicato nell’elettorato,soprattutto tra i più giovani. “Il peggio è stato evitato”, aveva commentato un alto diplomatico dell’Unione Europea alla pubblicazione dei risultati del secondo turno. Ma quel che deve essere chiaro è che si è trattato di una “vittoria” momentanea per gli europeisti. La chiamata all’emergenza di Macron ha funzionato, ma non è certo questa una soluzione da riproporre all’infinito: cosa accadrà alle presidenziali del 2027? Che oggi non sia ancora scoccata l’ora della destra (in Francia, come nel Regno Unito, e attenzione a quel che potrebbe accadere in Germania alle prossime elezioni, ottobre 2025) non vuol dire che il rischio sia archiviato. Mentre l’Europa si trova a dover disinnescare un potenziale ordigno, con i “Patrioti” del primo ministro ungherese Viktor Orban, dichiaratamente nazionalisti e antieuropeisti, a favore di Putin, sostenitori di Trump e contrarissimi alla rielezione di Ursula von der Leyen (voto previsto per il 18 luglio) alla presidenza della Commissione UE, continuano a raccogliere adesioni puntando a diventare il terzo gruppo al Parlamento europeo: oltre ai fondatori Fidesz (Ungheria), Ano (Repubblica Ceca), Fpo (Austria) hanno già aderito il Partito per la Libertà olandese (Pvv), il Partito popolare danese, l’estrema destra portoghese Chega, gli spagnoli di Vox e il Vlaams Belang, partito nazionalista fiammingo favorevole all’indipendenza, oltre alla Lega di Salvini e allo stesso Rassemblement National francese (Jordan Bardella è stato nominato presidente). La destra ha anche un altro vantaggio: ha leader riconoscibili. Il “centro” no. La sinistra no. E questo, anche nel medio periodo, potrebbe essere un nodo da affrontare.