CULTURA
Il manuale che smonta le scempiaggini
Nei corridoi delle facoltà di filosofia, qualche decennio fa, circolava tra gli studenti la seguente verità: solo la lingua tedesca ci permette di pensare degnamente e in grande. Naturalmente c’era sempre qualche incorruttibile tra gli aspiranti filosofi che non era d’accordo.
Tra i responsabili della gigantesca sciocchezza, che comunque poteva vantare una lunga tradizione, c’era il grande filosofo ma anche grande mistificatore, Martin Heidegger, che aggiungeva il greco antico al tedesco come lingua privilegiata per l’autentico pensare. In questo modo le altre lingue venivano ridotte a un rango inferiore e destinate a trattare solo del frivolo e del mondano. Corollario della presunta verità ora accennata è la celebre affermazione di Carlo V che sosteneva di parlare con Dio usando lo spagnolo, con gli uomini il francese, con le donne l’italiano e, infine, per parlare con il suo cavallo l’aspro tedesco.
Bollati Boringhieri stampa adesso, nei tascabili, il libro del linguista dell’università di Manchester Guy Deutscher La lingua colora il mondo, che smonta le scempiaggini appena ricordate. Scempiaggini che stentano a scomparire tra i colti e i semicolti, basti pensare a quello che scriveva Sciascia, e cioè che un siciliano, non conoscendo la costruzione grammaticale del futuro nel suo dialetto, non poteva nemmeno concepire qualsiasi forma di speranza; si potrebbe allora – sulla scorta di questa tesi – argomentare che lo stesso siciliano, passando alla lingua italiana, avrebbe immediatamente recuperato quel senso di futuro…, violando così il principio di non contraddizione. L’abbaglio stava qui nel credere che i tempi verbali di una lingua potessero avere una qualche ricaduta sulla concezione del tempo dei parlanti. Deutscher ricorda, da parte sua, la pagina di un celebrato intellettuale come George Steiner nella quale, discutendo delle forme verbali inglesi, asseriva come in quella lingua non si facesse alcuna distinzione rispetto al genere, diversamente per esempio dall’ebraico, in cui l’espressione tu mangi è coniugata in modo diverso a seconda che il tu sia un soggetto femminile o maschile. Steiner ne ricavava che in questa assenza di distinzione per l’inglese fosse implicita l’uguaglianza sessuale. Commenta Deutscher: “Esistono lingue così illuminate dal punto di vista sessuale da non applicare distinzioni di genere neppure ai pronomi, sicché anche “egli/lui” ed “ella/lei” sono fusi in una singola creazione unisex plastica e sintetica. Quali sono queste lingue? Per limitarci a qualche esempio, il turco, l’indonesiano e l’uzbeko: non esattamente idiomi di società celebri per la loro antropologia di uguaglianza sessuale”.
A conclusioni arbitrarie come quelle di Steiner si giunge quando si stabiliscono connessioni non verificabili tra pensiero, linguaggio ed etnicità: “Nessun idioma – neppure quello delle tribù ‘primitive’ – è intrinsecamente inadatto a esprimere idee più complesse. Qualunque insufficienza relativa alla capacità di filosofare di una determinata lingua consiste in ultima analisi nella mancanza di lessico astratto specializzato e forse di alcune costruzioni sintattiche, ma questi elementi possono essere facilmente presi in prestito, proprio come hanno fatto tutte le lingue europee ricavando il loro armamentario filosofico dal latino, il quale a sua volta l’aveva preso in prestito di sana pianta dal greco”.
E tuttavia, in questo libro di eccellente e gioiosa divulgazione, il linguista israeliano attraverso una serie di esempi attinti da una varietà sterminata di idiomi (dall’ebraico alle lingue europee, dal greco antico a lingue come il guugu yimitirr, una delle lingue degli aborigeni australiani, dal giapponese alla lingua degli indiani Hopi dell’Arizona) ci racconta, con molta cautela e con molte conferme empiriche, come la lingua possa influenzare il nostro pensiero più abituale e quotidiano e come all’indagine neurologica dei meccanismi del linguaggio si possa affiancare lo studio dell’influenza della lingua e dei suoi codici culturali sulla nostra mente. In particolare l’autore si sofferma sul nostro modo di rendere linguisticamente i colori oppure il nostro orientamento spaziale o anche, nel capitolo “Sesso e sintassi”, sul come i generi grammaticali maschile e femminile possano condizionare certe associazioni mentali dei parlanti.
Per stare ai colori, sebbene la visione cromatica sia un dato percettivo universale, Deutscher sottolinea che la lingua è in grado di rivelarci particolari interessanti su come nominiamo e concettualizziamo i colori. Alla fisiologia del colore sembra potersi intrecciare l’apporto della linguistica. Se in italiano distinguiamo linguisticamente il blu e il verde, in altre lingue la distinzione non è così netta, anzi blu e verde sono considerati variazione di uno stesso colore. Deutscher afferma che questa possibilità di distinguere linguisticamente i colori ci permette di enfatizzare, ogni cultura a suo modo, la nostra sensibilità nei loro confronti. Lo studioso scrive, nel suo precedente volume The Unfolding of Language (2005), che il nostro apprezzamento per un quadro di Chagall è anche dovuto al fatto che la nostra evoluzione culturale (quella occidentale) ha trovato una parola per indicare il blu. Ovviamente tutti sono in grado di distinguere un colore da un altro, ma non sempre le diverse lingue hanno sviluppato allo stesso modo le parole corrispondenti, forse perché in alcuni casi non c’era nessuna necessità a catalogarli o fissarli in un segno. Per esempio la lingua dei Dani della Nuova Guinea nomina lo spettro dei colori limitandosi a distinguere i colori chiari (mola)da quelli scuri (mili).
Tra le pagine più interessanti del saggio segnaliamo quelle sulla lingua omerica, sull’assenza, nell’Iliade e nell’Odissea, di termini per indicare il blu. Molto probabilmente il lessico coloristico della cultura omerica non trovò interesse a nominare il blu, forse perché invece mirava a descrivere e gerarchizzare i colori in base al grado di luminosità e alla loro capacità di riflettere la luce, in una scala che andava quindi dai più luminosi ai più cupi. La predilezione per colori come il rosso e il giallo e la distrazione per il blu e l’azzurro (del cielo o del mare, basti per tutti “il mare colore del vino”) farà scrivere a Nietzsche, nell’aforisma 426 di Aurora, che i greci nuotavano esclusivamente nei colori umani.
Guy Deutscher, La lingua colora il mondo. Come le parole deformano il mondo, Bollati Boringhieri, Torino 2016
Sebastiano Leotta