SOCIETÀ

Matematica e cinema: un’equazione impossibile

Con otto nomination all’Oscar e 100 milioni di dollari di incassi in poche settimane di programmazione internazionale, The Imitation Game è uno dei film candidati a segnare la stagione cinematografica. La storia di Alan Turing, il grande matematico inglese che offre il suo talento per decifrare i messaggi in codice nazisti durante il secondo conflitto mondiale, affascina per la statura del personaggio ma soprattutto, com’è naturale, per l’eccezionalità della sua vita e della sua morte. Diretta da Morten Tyldum, l’opera si basa sulla biografia scritta da Andrew Hodges, matematico come Turing e attivista pro-gay: un doppio omaggio, dunque, allo scienziato ma anche all’uomo umiliato (e, secondo i più, indotto al suicidio) dalla giustizia inglese che all’inizio degli anni Cinquanta, riconoscendolo colpevole di omosessualità, lo condanna all’assunzione forzata di estrogeni, unico scampo al carcere. Per il cinema, una storia perfetta: la genialità di uno dei precursori dell’informatica moderna, il suo carattere bizzarro, la sua guerra combattuta all’interno di un laboratorio, la persecuzione e la morte a 41 anni. E, più conturbante di tutto il resto, la consapevolezza che nell’arcidemocratico Regno Unito la vicenda di Turing sia rimasta offuscata per decenni dalla riservatezza di Stato, ma anche dall’impossibilità per la Corona di ammettere i propri errori: il primo discorso ufficiale di rincrescimento arriva dal premier Gordon Brown nel 2009 (“Sono fiero di dirti: scusaci. Meritavi ben altro”), ma è solo nel 2013, a quasi 60 anni dalla morte, che la regina concede il “perdono reale” a uno dei grandi uomini di scienza del ventesimo secolo.

Rispetto al successo di pubblico e all’indotto di marketing (un notes di appunti di Turing andrà all’asta a New York in primavera con una stima iniziale di un milione di dollari), il film ha ricevuto critiche per le molte libertà narrative rispetto al libro e alle reali vicende biografiche del protagonista. Se ne biasimano gli eccessi nel dipingere il matematico come nevrotico e solitario, ma soprattutto si rimprovera la ricostruzione dei fatti di Bletchley Park, il centro di controspionaggio teatro dell’azione di Turing e del suo gruppo: troppe licenze che non trovano riscontri, dalla presunta incapacità dello scienziato a collaborare con i colleghi ai ripetuti fallimenti iniziali, dall’assenza di ogni riferimento ai calcolatori preesistenti, da cui Turing prese spunto per elaborare il suo, agli inverosimili sabotaggi da parte dei superiori e all’inesistente complicità con una spia al servizio dei russi. Ma siamo certi che siano queste incongruenze il vero limite di The Imitation Game?

Era difficile, francamente, immaginare che un film destinato al grande pubblico e ai maggiori premi del sistema hollywoodiano potesse restituirci un quadro realistico e non drammatizzato di una simile vicenda. La pellicola ha un ottimo ritmo, è recitata benissimo e ricostruisce con maestria ambienti, ambiguità e lacerazioni di un gruppetto di intellettuali che si trova, quasi per caso, a giocare un ruolo tattico nel conflitto. Valutare un’opera di finzione come se avesse ambizioni documentarie dimostra, quantomeno, un errore di prospettiva: lo scopo dei biopic, i film biografici, non è di ricostruire i fatti con la perizia dello storico, ma di offrire degli elementi emotivi e di riflessione che invoglino lo spettatore a conoscere meglio l’uomo e la cornice entro la quale si sviluppa la sua storia. La vera occasione persa, invece, è l’ennesima rinuncia all’obiettivo più difficile: permettere al pubblico di sfiorare, anche solo per accenni, il significato scientifico del pensiero del protagonista. The Imitation Game non tenta nemmeno di lambire i traguardi del matematico più noti al grande pubblico: persino il celebre test per distinguere i calcolatori dagli umani viene trattato alla stregua di un giochino di abilità retorica. Del resto si sa, riguardo ai matematici i best seller cinematografici concentrano l’interesse sull’eccentricità e i drammi personali che si intrecciano all’intelligenza prodigiosa: è improbabile che quanti hanno visto A Beautiful Mind rammentino qual era il campo di studi di John Nash, ma le scene delle sue crisi di schizofrenia non si possono dimenticare. Inutile, quindi, protestare perché a Hollywood la loro storia si trasforma artificiosamente in epica o tragedia: è la ricetta che consente che un film come The Imitation Game, il cui intreccio è confinato in una tenuta di campagna e nei suoi laboratori, possa tener testa nel box office alle opere a grande budget d’azione, fantasy o a cartoni animati. Se cerchiamo un cinema dal reale valore divulgativo, non possiamo che guardare alle piccole opere indipendenti, anche di casa nostra. Se Renato Caccioppoli è un nome che oggi dice qualcosa ai non addetti ai lavori, è perché Mario Martone si è permesso il lusso di raccontare la vicenda di un matematico dalla vita tormentata non come quella di un eroico pazzoide, ma di un uomo il cui talento deve fare i conti con la storia.

Martino Periti

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