CULTURA

Acusada: la post-verità sul grande schermo

Non ci si poteva aspettare un banale thriller alla Mostra del cinema di Venezia. Partendo da questa aspettativa, il voto basso per Acusada risulterebbe inevitabile. Il film argentino di Gonzalo Tobal racconta il processo della 21enne Dolores, presunta assassina della sua migliore amica che aveva diffuso nel giro di amici un video molto esplicito su di lei facendo scattare il movente dell'omicidio.

In realtà il senso di suspense generato dall'intreccio è molto scarso: non viene creata nessuna possibilità di empatia con l'assassinata, e nemmeno l'accusata, comprensibilmente provata ma troppo inespressiva come personaggio, suscita grande simpatia nel pubblico. L'unico artificio che può far scattare l'interesse nel pubblico, è quello di presentare l'accaduto come uno dei processi televisivi che spesso dominano i piccoli schermi, da Amanda Knox ad Annamaria Franzoni. Probabilmente solo questo e la buona interpretazione di Lali Espósito (in realtà spigliata e frizzante con pubblico e giornalisti) impediscono al pubblico di uscire dalla sala.

Alla fine della proiezione, però, ci si ritrova a riflettere. Perché, tra i vari difetti della pellicola, bisogna dire che ha un grosso pregio: ci fa fare il punto sulla post-verità. Quello che è successo conta fino a un certo punto, e molto più importanti sono le apparenze. Il padre di Dolores non si è mai preoccupato di chiederle se è colpevole, ma ha ipotecato tutte le sue proprietà per ottenere i consulenti migliori, che le dicono cosa dire, come vestirsi e quando piangere, fino alla prevedibile ribellione. Verso la fine del film arriva a dirle che se la giudicano colpevole non sarà più sua figlia: l'effettiva colpevolezza (o innocenza) non è di alcun interesse.

Visto come la rappresentazione del rimpianto della verità, Acusada potrebbe essere passabile, e la sceneggiatura di Ulises Porra non sarebbe nemmeno troppo scontata. La domanda che però viene da porsi è: se vogliamo ammettere a Venezia generi inusuali come horror e thriller, siamo sicuri di volerli per forza snaturare con riflessioni tirate e meccanismi registici per nulla convincenti? L'uso delle luci risulta curioso, e non volutamente, la profondità psicologica dei personaggi non è sufficientemente indagata (la madre della vittima compare due volte, la prima piange e la seconda chiede vendetta) e la trama non coinvolge più di tanto. Per finire, ci si attacca una metafora che male si integra con tutto il resto: nel quartiere gira un puma, tutti ne parlano ma nessuno l'ha mai visto veramente. Il film si chiude con l'apparizione del puma. La sensazione è che si dovesse scorgere qualcosa di profondo in tutto ciò, ma le frasi che si potevano orecchiare all'uscita erano del tenore "Carina la storia, ma quel puma non l'ho proprio capito".

Insomma, non si poteva scegliere tra thriller e dramma interiore? L'ambizione di salvare capra e cavoli farà probabilmente scivolare questa pellicola nell'oblio alla fine del Festival, anche se a Venezia non si può mai dire.

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