SCIENZA E RICERCA

Le api di Paolo Fontana, traduttore di Virgilio

“Chi ha paura delle api non leccherà mai miele”. A pronunciare questo proverbio antico è Paolo Fontana, entomologo e apidologo della Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige, istituzione che opera in ambito agricolo, agroalimentare e ambientale. Ma Paolo Fontana è anche, e soprattutto, un grande amante delle api (e apicoltore): basta avere l’occasione di guardare con quanta cura solleva il tetto delle arnie, sposta la stoffa che le tiene riparate, tira fuori i favi e le osserva operose al lavoro per rendersi conto di quale e quanto sia il fascino che quest’animale può esercitare sugli esseri umani.

Le api sono al mondo da molto prima di noi (si dice dal tempo dei dinosauri: il loro corpicino è stato rintracciato all’interno di gocce d’ambra, e datato) e già gli antichi sentivano il bisogno di raccontarle e di attribuire loro un ruolo simbolico. Le ancelle di Artemide si chiamavano Melissae, cioè api mellifere, e secondo Plinio Aristotele avrebbe ricevuto “il bacio delle api” sulla bocca, cioè il dono dell’eloquenza, ma lo si disse, in questi termini, anche di Socrate, Pindaro, Sant’Ambrogio. La prima testimonianza da parte dell’uomo del suo rapporto con le api risale a circa 10.000 anni fa ed è un dipinto rupestre, fatto nella Grotta del ragno in Spagna, che rappresenta un uomo che si arrampica, stordisce le api con il fumo e ruba loro il prezioso miele. Gli Egizi invece le veneravano credendo che fossero le lacrime del dio sole (Ra) cadute nel deserto, gli Dei dell’Olimpo si nutrivano di nettare e ambrosia, entrambi a base di miele, e Zeus venne affidato dalla madre Rea, per nasconderlo al padre Crono che temeva – come poi fu – di essere detronizzato da lui, alla capra Amaltea che lo nutriva con il latte e alla ninfa Melissa che gli dava invece del miele. Secondo la mitologia greca fu Aristeo, figlio di Apollo, a imparare delle ninfe i segreti dell’apicoltura e ad insegnarli agli uomini. Ma non solo: il corpo di Alessandro Magno viaggiò per i 200 chilometri che separavano Babilonia, dove morì, dalla sua Macedonia immerso nel miele e Napoleone fece dell’ape il simbolo del suo regno, indossando il giorno dell’incoronazione, sull’esempio di Childerico I re dei Franchi che volle essere seppellito con più di trecento api d’oro, un mantello rosso tempestato di ricami di apine siffatte, a testimoniare la discendenza dall’antica dinastia: per questo le api sostituirono durante l’era napoleonica i fiori borbonici su stendardi, sigilli e fregi.

Se chiudiamo gli occhi e pensiamo alla letteratura e alle api, poi, non può che venirci in mentre il Vate: Virgilio, nato da una famiglia di apicoltori e che nei suoi componimenti (le Bucoliche prima di tutto) più e più volte le cita. Paolo Fontana è anche fine conoscitore (e traduttore) di Virgilio, e del suo rapporto con le api ha più volte scritto.

Riporta all’attenzione per esempio quel modo di dire “non vobis” (o “non nobis”) che deriva dal verso che Virgilio scrisse riferito alle api, insieme ad altri simili, per farsi beffe di quel sedicente poeta che si era ingiustamente attribuito un suo componimento: “Sic vos non vobis mellificatis apes”, cioè “così voi, ma non per voi, producete il miele, api” (o parimenti “Sic nos non nobis mellificamus apes” se a parlare sono le api stesse) che evidenzia come il poeta non scriva per glorificare sé stesso, così come le api non producono miele per loro, ma per garantire la biodiversità, come diremmo oggi.

Delle 25.000 specie che ci sono al mondo (2000 in Europa, e a oggi in Italia se ne contano 1017) quella a cui noi facciamo riferimento è l’ape mellifera, l’ape da miele, spiega Fontana, la cui caratteristica inimitabile è quella di essere un impollinatore efficientissimo. È infatti ricoperta da una peluria piumata a cui resta attaccato con estrema facilità il polline che lei compatta con le zampe e spinge nei cestelli, le cavità delle zampe posteriori in cui viene trasportato fino all’alveare. In questo modo le api, con il loro volare di fiore in fiore e “sporcarsi” di polline e trasportarlo altrove (un’ape può battere le ali fino a 230 volte al secondo e volare anche a 30 chilometri all’ora), si fanno garanti del processo di riproduzione vegetale, che solo grazie al vento avrebbe una bassa efficienza. Fontana spiega che oltre due terzi di quello che mangiamo è, ab origine, frutto di un processo di impollinazione. Addirittura si dice che la gloria della marina britannica dipenda dalle api perché i bombi impollinano il trifoglio che è il pascolo dei montoni e il montone in salamoia il rancio della marina.

Ma c’è di più ad affascinare l’uomo quando si mette in relazione con questo straordinario insetto: per esempio la sua struttura sociale che funziona secondo l’adagio “a ciascuno il suo compito”. L’ape regina vive dai 2 ai 4 anni e li trascorre deponendo uova, anche più di 2000 al giorno, che possono essere fecondate degli spermatozoi dei fuchi che con lei si sono accoppiati in volo mentre sciamava verso il nuovo alveare, dando così origine alle operaie, oppure non fecondate, da cui nasceranno nuovi fuchi. Le uova vengono deposte nelle cellette del favo, costruito dalle api operaie “ceraiole”, e dalle uova nascono le larve che le operaie “nutrici” alimentano con polline, miele e pappa reale per poi sigillarle nelle celle, dove queste diventeranno adulte. Una volta pronte le api aprono l’opercolo di cera e nascono: se sono state nutrite con solo pappa reale saranno regine. Le operaie non sono però solo ceraiole o nutrici: ci sono anche le “guardiane” dell’alveare, le “magazziniere” che stipano il nettare e il polline nei favi, le “pulitrici” delle celle, le “bottinatrici” che escono dall’alveare per raccogliere nettare, polline, propoli, acqua e le “esploratrici” o “danzatrici” che analizzano il territorio circostante per indirizzare le altre con un apposito tracciato di volo “sinusoidale” dalle diverse forme (ciascuna con un diverso significato) verso le fonti di nutrimento.

Per l’uomo tutto questo è stato sempre fonte d’ispirazione (la struttura stessa del favo – “a nido d’ape” – ha illuminato non pochi architetti): anche l’epigenetica non può non osservare che un uovo femminile dà origine a una regina o a un’operaia a seconda di come viene alimentato, chiosa Fontana, e fin dai tempi antichi Aristotele e altri filosofi e studiosi della natura hanno cercato di dare una spiegazione scientifica dei processi legati al mondo delle api e alla loro biologia, per esempio la sciamatura, cioè quel fenomeno di esodo che porta alla moltiplicazione degli alveari. Fontana mostra come, leggendo Virgilio con l’occhio dell’apidologo e non attraverso il filtro della poesia, si rintraccino descritte, per esempio, caratteristiche fonetiche tipiche della sciamatura. Di seguito la sua traduzione “tecnica” di alcuni versi del libro IV delle Georgiche: “Se invece usciranno a battaglia – infatti spesso fra due [regine] scoppia una grande e tumultuosa discordia – tu potrai molto prima prevedere l'ardore della colonia e l'ansiosa attesa della battaglia che cova all'interno; infatti finché le api sono ancora dentro l'arnia, si sente un caratteristico e marziale brontolio come di un rauco bronzo e si sente uno strepito simile agli squilli intermittenti delle trombe”. Sono ben delineati qui, dice Fontana, tre aspetti etologici della sciamatura: l’uscita dall’alveare, il ronzio che la precede e il cosiddetto canto della regina.

Certo poi Virgilio, sempre nello stesso libro delle Georgiche, dà al fenomeno della bugonia, cioè della “nascita” delle api dalle carcasse di bue, una spiegazione che affonda nel mito. Pare infatti che Euridice finì nell’Ade per colpa di quell’Aristeo che aveva insegnato agli uomini l’arte dell’apicoltura, perché nel tentativo di farla sua la vergine venne morsa da un serpente. Siccome Euridice era una ninfa amadriade, cioè degli alberi, le altre per solidarietà distrussero gli alveari di Aristeo. La madre di questi gli consigliò quindi di sacrificare alle ninfe dei capi di bestiame e al suo ritorno Aristeo lì vi trovò degli sciami d’ape che usò per ricostituire i suoi allevamenti.

Leggere i testi antichi sulle api secondo Fontana è fondamentale perché da questi possiamo nuovamente trarre insegnamento su come comportarci sulla terra. Il cosiddetto declino delle api, cioè la loro riduzione in numero, abbastanza drastica invero, è infatti secondo Fontana ascrivibile ai cambiamenti climatici e alle modificazioni dell’ambiente di cui siamo responsabili. Le api faticano a trovare fiori, e quindi polline e nettare, e questo deriva dall’applicazione della monocoltura e dall’uso dei pesticidi. In alcune grandissime distese di terreno i fiori ci sono solo per un brevissimo periodo o può accadere che proprio non fioriscano. Se anche lo fanno, ma il clima non è più quello adeguato alla fioritura, muoiono.

Inoltre l’eccessivo calore o il freddo estremo sono un aggravio di spesa energetica per le api. A questo si sommi la presunzione dell’uomo di considerare l’ape mellifera e il bombo delle specie domestiche, perché allevate, quando invece restano animali selvatici e non dovrebbero essere confinate né tantomeno spostate di prepotenza, cosa che provoca inquinamento genetico e diffusione di parassiti.

“L’alveare insomma è come uno stargate – conclude Fontana –nell’alveare noi possiamo leggere noi stessi, il nostro modo di stare al mondo”. Ma c’è di più, e come dargli torto, specie dopo avergli visto aprire un’arnia ed essersi fatti mettere tra le mani un favo brulicante d’api: “Quando si apre un alveare si aprono, insieme, la porta dell’inferno e del paradiso”.

L'alveare è come uno stargate Paolo Fontana

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