CULTURA

La dozzina dello Strega: Ada D'Adamo

Come si traduce sulla pagina un urlo strozzato di dolore che deve tacitarsi? A cosa serve scrivere se il destino è segnato? E quindi qual è il senso ultimo della scrittura? È possibile mettere ordine al caos? Anche solo ricostruendo la cronologia degli eventi? E infine: esiste il destino?

Viene di chiedersi tutto questo leggendo Come d’aria di Ada D’Adamo (Elliot edizioni) in dozzina al Premio Strega, e, purtroppo, mai si potrà più avere risposta a queste domande direttamente dall’autrice, come nelle altre puntate della nostra rubrica sullo Strega, perché Ada è morta il 1° aprile scorso.

Il suo romanzo – che ora più che mai viene letto, anche in reading pubblici – è una sorta di diario dell’anima, in cui la scrittura terapeutica si mescola alla scrittura narrativa ma senza un fuoco, un centro, un progetto, una volontà programmatica.

La voce narrante in prima persona, che ha il nome, l’impiego e le fattezze di chi scrive – è Ada – racconta la nascita della figlia Daria, che viene al mondo con un disturbo grave congenito che porterà inevitabilmente a ritracciare le direttrici della vita di Ada: “Quando hai un figlio disabile cammini al posto suo, vedi al posto suo, prendi l’ascensore perché lui non può fare le scale, guidi la macchina perché lui non può salire sull’autobus. Diventi le sue mani e i suoi occhi, le sue gambe e la sua bocca. Ti sostituisci al cervello. E a poco a poco, per gli altri, finisci con l’essere un po’ disabile pure te: un disabile per procura”.

Ma se poi queste gambe, gli occhi, la bocca, i sensi tutti per procura dovessero poi ammalarsi a loro volta?

È quello che succede ad Ada che, una seconda volta, deve ripensare tutto, ristabilire l’equilibrio e capire come riempire i vuoti senza la sua presenza e la sua forza. Lei che, ballerina, col corpo e del corpo, ha vissuto più degli altri esseri umani, dal corpo viene tradita.

Come d’aria è un libro sui confini e sui legami. Dove inizia l'io e dove finisce il tu?

“Nel dialetto del paese dove sono nata c’è un modo che le madri usano per spiegare la nostalgia che le assale di fronte alla crescita dei figli, il desiderio non avverabile di riaverli piccoli. Me l’armittéss dentr ‘a la panz, dicono”. Fa venire in mente La figlia unica di Guadalupe Nettel così come Cose che non si raccontano di Antonella Lattanzi, nella misura in cui i figli che saranno o non saranno derivano da noi e dalla nostra volontà, e contemporaneamente alla nostra volontà sfuggono.

“Se potessi Daria me la rimetterei dentr a’ panz?”

Impossibile scampare il pensiero magico – declinato anche da Lattanzi e da Nettel – della colpa che s’abbatte perché prima abbiamo sbagliato, per esempio forzando il destino, per mezzo di un aborto, di altri figli che avrebbero potuto essere e sarebbero potuti essere normali. O della malattia che in qualche modo ci apparteneva prima ancora che si manifestasse: “[…] Frugando in un cassetto nella camera da letto dei miei, trovai un certificato di interruzione di gravidanza. Ero ancora piccola e quella scoperta mi sconvolse lasciandomi la netta impressione che il mio esistere potesse essere il frutto di una pura casualità […] E ancora, penso alla perdita di Paolo. Al mio sogno d’amore infranto. […] E ancora, penso alla tua nascita. Al mio sogno di madre infranto. […] Ecco perché quando mi sono ammalata non mi sono stupita più di tanto. Quella ferita, quella lesione sulla schiena, quel nodulo al seno erano lì da tanto tempo. Questo tumore sono io, è la mia identità. In esso mi riconosco, e finalmente vivo”. Qualcosa di simile l’ha detto Michela Murgia in una recente intervista che ha diviso l’opinione pubblica.

Il romanzo di D’Adamo non si può quindi leggere come fosse un romanzo qualsiasi: non si riesce a prescindere dal fatto che è la sua storia, una storia terribile di ingiustizia che è capitata a lei ma poteva capitare a noi, ma che chi scrive l’ha accettata e l’ha scritta (indipendentemente da chissà quale collezione di ragioni l’hanno spinta), e che ora è in lizza per il premio massimo, anche se lei è morta. Non importa che le sbavature ci siano, che L’anno del pensiero magico di Didion sia un memoir inarrivabile: Come d’aria ha la necessità della sincerità.

D’Adamo chiude citando Chandra Candiani: “Come amare sapendo che la separazione ci aspetta? /Come essere pienamente e saper sparire? Non lo so. /Sono le leggi della vita, le sue imperscrutabili coreografie, /danze per non vedenti, un soffio leggero ci sfiora la faccia /e le mani e pure non vedendo sappiamo: la danza continua”.

Chissà come continua la danza di D’Adamo, ballerina, madre, scrittrice. Di certo continua nell’anima di chi la legge.

Quando mi sono ammalata non mi sono stupita più di tanto. Quella ferita, quella lesione sulla schiena, quel nodulo al seno erano lì da tanto tempo. Questo tumore sono io, è la mia identità. In esso mi riconosco, e finalmente vivo Ada D'Adamo

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