CULTURA

Effetto domino, intervista allo scrittore Romolo Bugaro

Sul grande schermo il romanzo di Romolo Bugaro Effetto domino diventa asfissiante, toglie letteralmente il respiro, rabbuia l’anima. E in questo riesce nella sua missione, se quella dell’arte è muovere qualcosa nel profondo.

Siamo nel Veneto dei giorni nostri, i protagonisti sono dei “poveri diavoli” che s’illudono di fare il salto con l’affare della vita. E non a caso in questa terra di capannoni costruiti senza regola, l'affare è l’ennesimo piano edilizio: enorme, spropositato, per ricchi, e chi se ne importa del resto, di avere una visione che abbracci terre e persone. Qui si vuole “fare schei”.

In una cittadina termale frequentata da turisti agée, l ’idea è di vendere l’illusione della vita eterna, della felicità comprata col danaro, simboleggiata dalla medusa, che, se della specie turritopsis nutricola, pare sia immortale: costruiranno resort di lusso dove il tempo non esiste. La medusa però simboleggia anche la capacità sinuosa e silente di quei funzionari di banca che, dalla sala dei bottoni, decidono di ritirare il prestito facendo saltare tutto. E precipitando nell’incubo la vita dell’impresario e, a cascata (da cui l’effetto del titolo), di molti altri. Di tutti.

Per questo manca l’aria: perché non c’è via di scampo, perché persino il parroco parla di soldi anziché di Dio, perché le scene finali si svolgono durante una festa sciccosissima, cui partecipano notabili e poveri cristi, tutti tirati a lucido. Celebra un successo (nonostante gli intoppi, i resort sono stati costruiti) e invece è la débâcle.

Bugaro non introduce nel romanzo il tema metafisico della ricerca dell’immortalità, ma, a parte questo, il film è sostanzialmente fedele alla narrazione scritta, e, anzi, quest’ultima ne diviene la voce fuori campo, lirica, in italiano, mentre tutto il resto è recitato in dialetto, perché in dialetto sarebbero state dette le frasi dei protagonisti di un’ipotetica storia così, e perché il dialetto mostra la dimensione domestica, e più che mai terrena, della tragedia.

Alessandro Rossetto, il regista, non a caso è padovano, anche se non vive in Veneto da diverso tempo; la Jolefilm, la casa di produzione, pure, e veneti sono gli attori. Una sfida: di solito su queste terre non si girano film (a parte memorabili eccezioni come le opere di Mazzacurati o Segre), non si scrivono libri.

Eppure è una regione che per molti versi è lo specchio del presente, in cui l’etica del lavoro ricorda a tutti, costantemente, che bisogna produrre. In una vicenda che assurge a diabolico paradigma, ciascuno è vittima e carnefice allo stesso tempo. Ma c’è qualcosa che si è inceppato, qualcosa che stride: non si sa bene se nel meccanismo economico (come solo apparentemente è suggerito) o piuttosto nella rete sociale, o forse ancora nell’intimo, o nella morale. E mentre ci accorgiamo che è iniziata l’apocalisse sentiamo nelle orecchie la musica sacra di Vivaldi.

Ecco cosa fa di un film un’opera completamente diversa dal romanzo da cui è tratta, anche se gli vuole essere fedele. Bugaro ha seminato, il lettore ha sentito quel che ha sentito, ma il regista ci dà la sua versione, che è fatta di immagini, musica e parole. E se di un libro possiamo saltare le pagine più dure, qui non ci possiamo sottrarre.

Abbiamo intervistato Romolo Bugaro:

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