Adrien Brody e Felicity Jones in "The Brutalist" di Brady Corbet - in concorso a Venezia 81
Quasi quattro ore di proiezione per un film che riesce a mantenere salda l'attenzione del pubblico senza far mai desiderare la fuga nel buio della sala. The Brutalist di Brady Corbet è sontuoso, imponente e lacerante come l'impossibile progetto architettonico avviato dal protagonista in cima a una collina: dilatandosi, ma senza abbandonarsi al superfluo, non concede spazio alla distrazione, incanta e ferisce, “è un film dedicato a tutti gli artisti che non sono mai riusciti a realizzare la propria visione". Sette anni di lavoro per un'opera estremamente ambiziosa, in 70 mm, firmata dal regista che al Lido, nel 2015, sorprese con The childhood of a leader e che ora si presenta in concorso a Venezia 81.
Partendo da una prima ispirazione in parte scaturita da La fonte meravigliosa di Ayn Rand e dall'opera di Jean-Louis Cohen, Architecture in Uniform: Designing and Building for the Second World War, Corbet sembra chiedere al suo film di sostenere tutto il peso del cemento e svilupparsi in altezza, permettendoci di ricomporre il mosaico delle nostre - poche e approssimative - conoscenze di storia dell'architettura, in particolare dello stile brutalista della seconda metà del Novecento. Al tempo stesso, già il titolo annuncia e dà corpo alla sostanza della storia, stride come un rumore di fondo, si fa presagio di potere e privilegio, anticipa un viaggio nelle emozioni contrastanti tra seduzione e sottrazione, prodigio e sgomento. Paragonato, nelle prime recensioni a caldo, a titoli come C'era una volta in America e Il petroliere, il film mantiene un ritmo serrato nella narrazione degli eventi e si concentra sull'esplorazione della complessa psicologia del protagonista, rivelando un lieve affaticamento solo nella seconda metà (con un viaggio in Italia, a Carrara, alla ricerca del marmo perfetto) e in un epilogo che si consuma, strano a dirsi, forse troppo rapidamente, alla Biennale Architettura di Venezia del 1980.
Corbet, che ha scritto la sceneggiatura con Mona Fastvold (alla Mostra nel 2020 con Il mondo che verrà), racconta la storia dell’architetto ebreo László Tóth, interpretato da un eccezionale Adrien Brody che ha spiegato di aver immediatamente compreso e "sentito" il suo personaggio. Allievo della scuola del Bauhaus, visionario intransigente, al termine della Seconda Guerra Mondiale, Tóth lascia l’Ungheria, gli orrori dell'Olocausto e la sua famiglia - la moglie e la nipote restano a Budapest diversi anni ancora -, per raggiungere gli Stati Uniti e cominciare una nuova vita: in Pennsylvania viene accolto, ma poco dopo cacciato, dal cugino Attila. Rimasto senza soldi, contatti e prospettive, senza più potersi esprimere come professionista, svolge lavori umili e logoranti e vive per lungo tempo in povertà, affamato e dipendente dalle droghe, prima di riuscire a ottenere un contratto con il ricco imprenditore Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce) che cambierà il corso dei suoi successivi trent’anni.
A una proposta di tre ore e trentacinque minuti di visione - più intervallo - siamo portati a opporre resistenza (maratone di serie tv a parte, non siamo granché disposti a dedicare tempo e attenzione a una singola storia senza, nel frattempo, poter pensare ad altro), ma soffermarsi troppo sulla lunghezza dei film non ha molto senso - l'ha ribadito anche Corbet rispondendo a una domanda in conferenza stampa - perché un'opera dovrebbe potersi esprimere sfruttando il tempo che serve e, in questo caso, al Lido, l’infinita storia di The Brutalist è riuscita a tenere il suo primo pubblico inchiodato alla poltrona, questo ha del miracoloso.