CULTURA

La Grande Guerra attraverso gli occhi di uno studente

Adolfo Zamboni (1891-1960) stava per laurearsi brillantemente in lettere all’università di Padova quando il primo giugno 1915, una settimana dopo l’entrata in guerra dell’Italia, fu chiamato alle armi. Rispose con entusiasmo all’appello della Patria e andò a combattere con spirito risorgimentale e con fermissima coscienza del dovere quotidiano da compiere. Classificatosi tra i primissimi allievi del corso accelerato per ufficiali alla Scuola Militare di Modena, il 17 settembre 1915 fu nominato sottotenente di complemento.

Salutata Padova, la città dei suoi studi, e ricevuti gli auguri dei suoi insigni maestri Romagnoli e Lazzarini, partì per il fronte insieme a due cari amici universitari: i sottotenenti Silvio Appiani e Ivo Bergamasco. Entrambi studenti di medicina, avevano disdegnato il servizio in sanità per combattere in fanteria e in fanteria morirono: il primo sul Carso nell’ottobre del 1915, a 21 anni; il secondo sull’Altipiano di Asiago nel giugno 1916, a 24 anni. A Silvio Appiani, attaccante della squadra di calcio locale, Padova dedicherà il suo stadio.

Per il servizio di prima nomina il sottotenente Zamboni fu assegnato al 141° fanteria, il reggimento dalle mostrine rosse e nere che aveva il motto: “Portiamo i colori del sangue e della morte: ovunque vincitori”. Egli, che era stato temprato dalla dura vita nelle bonifiche ferraresi e del basso Tagliamento e dagli immensi sacrifici fatti per mantenersi agli studi lavorando, fu lieto della sorte toccatagli di condividere i pericoli e le fatiche di guerra con gli umili fanti calabresi che formavano il 141° reggimento: in gran parte braccianti e pastori, alla semplicità d’animo univano il coraggio e la risolutezza dei forti. Sembravano diffidenti, ma aprivano tutto il cuore a chi sapeva guadagnarsi il loro amore, come quel giovane ufficiale, che voleva bene ai suoi soldati e dedicava loro tante premure, fino a tenere la corrispondenza con le famiglie per i molti soldati che non sapevano scrivere. I fanti della sua compagnia avevano fiducia in lui e per lui affrontavano i pericoli quasi con indifferenza.

La Brigata Catanzaro

Il 141° reggimento, forte di circa 3.000 uomini, formava, insieme al gemello 142°, la brigata Catanzaro, una delle 25 brigate della Milizia Mobile destinate a integrare in guerra le 48 brigate di fanteria dell’Esercito Permanente. Costituita nell’imminenza del conflitto, la “Catanzaro” fu inquadrata nella III Armata, l’invitta “Armata del Carso” comandata da Emanuele Filiberto di Savoia Duca d’Aosta. Pur priva delle tradizioni secolari delle brigate d’élite, la “Catanzaro” si guadagnò presto, anche presso i nemici, la fama di una tra le più valorose e tenaci. Logorata per due anni da lunghissimi turni in trincea di prima linea, fu spesso impiegata come brigata d’assalto nei settori più contesi del terribile fronte carsico.

Il battesimo del fuoco di Adolfo Zamboni avvenne il 18 ottobre 1915 nella terza battaglia dell’Isonzo, quando il 141° iniziò una lunga serie di sanguinosissimi attacchi per conquistare le tragicamente famose posizioni di Bosco Cappuccio e San Martino. Dopo due settimane di incessanti assalti in cui i fanti calabresi avanzavano a ondate e andavano a morire colpiti dalle mitragliatrici davanti ai reticolati nemici, essi si impadronirono di quel sistema di trincee che gli avversari avevano difeso con disperato valore e che era costato al reggimento oltre due terzi dei suoi effettivi. All’inizio del 1916 il 141° si distinse nella riconquista dell’infernale collina di Oslavia e il sottotenente Zamboni per le doti di comando dimostrate fu nominato aiutante maggiore del II battaglione.

L’offensiva austroungarica del maggio 1916

Il 15 maggio 1916 il gruppo di armate Arciduca Eugenio sferrò lungo l’arco di fronte tra Val Lagarina e Valsugana una poderosa offensiva, passato poi alla storia come Strafexpedition o ‘spedizione punitiva’, che mirava a sconfiggere l’Italia penetrando nella pianura veneta e assalendo alle spalle il grosso dell’esercito italiano, schierato in Friuli. Gli attaccanti, forti di 191 battaglioni e 1.056 pezzi d’artiglieria, avevano di fronte i 155 battaglioni e i 773 pezzi d’artiglieria della 1a Armata italiana.

Sul tratto di fronte dell’Altipiano di Asiago il III corpo d’armata austroungarico, molto superiore per quantità e calibro delle artiglierie, attaccò la 34a divisione italiana, dotata di pochi pezzi piuttosto antiquati. Per quattro giorni l’artiglieria nemica batté sistematicamente la prima linea italiana, sconvolgendola con un intenso tiro di distruzione. Il 19 maggio tutte le difese italiane crollarono. I tentativi di resistenza sulla seconda e terza linea di difesa, poco munite, si ridussero ad un sacrificio nobile ma vano, poiché le brigate di fanteria e l’artiglieria da campagna, accorse da altri fronti e ignare delle posizioni, vennero impiegate in modo frammentario e subirono forti perdite senza riuscire a prevalere. Per tentare di arrestare l’impeto furioso del nemico anche la «Catanzaro» fu trasferita d’urgenza dal Friuli all’Altipiano.

Dopo le gravi perdite sofferte sul Carso, il 141° e il 142° reggimento erano stati ricostituiti nella primavera del 1916 con numerosi complementi provenienti da Catanzaro e Cosenza, tutti delle classi 1886 e 1887. Quei giovani tra i 28 e i 29 anni, vigorosi di corpo e fermi d’animo, talvolta erano tuttavia angustiati dal pensiero delle spose e dei figlioletti che avevano lasciati in ansia nelle povere case sperdute tra i monti lontani.

Il pomeriggio del 18 maggio il generale Carlo Sanna, un sardo che comandava la “Catanzaro”, convocò d’urgenza a rapporto tutti gli ufficiali e comunicò che la brigata doveva tenersi pronta a partire per gli altipiani perché pareva che qualcosa di molto grave stesse succedendo lassù.

La truppa accolse la notizia con gioia, pensando a un avvicendamento sul più tranquillo fronte trentino come premio ai tanti sacrifici passati, ma presto ammutolì quando seppe di dover lasciare il grosso bagaglio in Friuli, dove sarebbe presto tornata.

Il giorno successivo i reparti partirono da Palmanova con treni diretti speciali e dopo una breve sosta a Padova raggiunsero Vicenza, dove appresero le prime notizie di un grande attacco delle truppe di Conrad, il vecchio feldmaresciallo che aveva dedicato gran parte della vita a preparare con tanta passione il piano offensivo contro l’Italia. Il 21 maggio i fanti proseguirono a piedi verso l’Altipiano. A Crosara furono raggiunti dai Granatieri, già loro indivisibili compagni di lotte sul Carso, che li precedettero in autocarro.

Asiago in fiamme

Salendo faticosamente la ripida strada per Lusiana, la lunga colonna incrociò gli abitanti che avevano abbandonato in fretta le case tre o quattro giorni prima e fuggivano dall’Altipiano trascinando poche povere masserizie. Essi narrarono i gravi avvenimenti accaduti lassù: la linea era stata rotta sotto l’urto violentissimo del nemico; i pochi resti dei reparti italiani si ritiravano; i forti di Verena e di Campomolon erano caduti in mano agli Austriaci, che calavano baldanzosi per le valli; verso Roana e Camporovere si combatteva; i paesi erano in fiamme. I veterani del Carso ascoltarono con profonda commozione le luttuose notizie e si domandarono come avesse potuto accadere un così terribile disastro, ma non si sgomentarono. Compresero che era suonata un’ora grave per la Patria e, disposto l’animo al sacrificio, marciarono contro il nemico con raddoppiato vigore.

I reparti si inoltrarono di notte nella fitta boscaglia senza alcuna guida esperta dei luoghi e senza conoscere né la posizione raggiunta dal nemico né quella dove si erano ritirati i resti dei reparti italiani. I fanti, fissata al fucile la baionetta, presero a salire faticosamente in lunga fila per erti sentieri, verso l’ignoto, temendo l’accerchiamento o un’imboscata. Il rombo intermittente dei grossi calibri austriaci puntati su Asiago misurava la loro marcia e di tratto in tratto le fiamme che si levavano alte dalla cittadina in rovina illuminavano sinistramente la densa oscurità.

Il 26 maggio venne ordinato al I e II battaglione del 141° di occupare le cime dei monti Interrotto e Mosciagh, dove resistevano i pochi superstiti dell’89° fanteria (brigata Salerno). Raggiunta la strada che da Camporovere porta al Monte Rasta e al Monte Interrotto, i fanti calabresi incontrarono alcuni cavalli dell’artiglieria che fuggivano all’impazzata e altri che rantolavano gravemente feriti sul terreno o che si trascinavano a stento verso il piano. Un maggiore del 5° reggimento artiglieria da campagna li scongiurò di accorrere verso cima Mosciagh, ultima barriera che separava gli Austriaci da Asiago. I nemici avevano già raggiunto quell’importante caposaldo di difesa e avevano catturato sei cannoni, che gli artiglieri avevano cercato strenuamente di difendere coi moschetti e le baionette. Il sardo colonnello Thermes, comandante del 141°, incitò i suoi soldati a sacrificarsi tutti, se necessario, perché se il nemico fosse riuscito a superare quelle ultime resistenze avrebbe raggiunto la pianura in poche ore.

“Sul Monte Mosciagh la baionetta ricuperò il cannone”

Mentre il I battaglione del 141° si dispose tra l’Interrotto e il Mosciagh, il II battaglione continuò a salire verso la vetta, schierandosi a battaglia e avanzando lentamente e con fatica per il bosco. Giunti nelle vicinanze dei cannoni, i fanti si sistemarono a difesa costruendo dei piccoli ripari coi sassi. Gli Austriaci tornarono all’attacco, approfittando di una violentissima grandinata. Per tutta la notte, piovosa e tenebrosa, continuò intenso il fuoco. I soldati, messi a dura prova dalla stanchezza, dal digiuno e dal freddo, trascorsero un’altra notte all’addiaccio, privi di tende, di coperte e persino di mantelline, nel bosco dove qua e là persisteva ancora la neve. La mattina del 27 il nemico rinnovò l’attacco con truppe fresche e provò l’aggiramento alla destra del 141°, che era scoperta, ma la sua manovra non riuscì. Negli scontri caddero parecchi fanti e alcuni ufficiali, mentre il maggiore che comandava il II battaglione rimase ferito.

Appena fattosi buio il II battaglione del 141° tentò di assaltare la cima del Mosciagh di sorpresa, servendosi della sola silenziosa baionetta, col difficilissimo obiettivo di liberare i cannoni, ma il nemico era all’erta e rispose subito con un fuoco micidiale di mitragliatrici e bombe a mano. I tentativi furono ripetuti varie volte e per tre ore l’infernale corpo a corpo si svolse pauroso, perché le tenebre aumentavano l’orrore. Il sottotenente Zamboni, “ardito coadiutore del comandante del battaglione, si portava ripetutamente, sotto un violento fuoco avversario e con mirabile sprezzo d’ogni pericolo, nei punti più battuti e minacciati, incorando con la voce e con l’esempio i soldati, finché cadde gravemente ferito”. Intorno a lui caddero una decina di altri ufficiali e un centinaio di soldati, ma la linea dei cannoni fu raggiunta e superata. Finalmente l’alba sorse a salutare la completa vittoria italiana.

A tutta la 34a Divisione, gravemente minacciata alle spalle dagli Austriaci che premevano da ogni parte tendendo ad Asiago con ogni loro sforzo, fu ordinato di ripiegare con grande celerità di movimento sulla nuova linea di difesa che il Comando Supremo stava imbastendo lungo il margine meridionale dell’Altipiano. Anche la “Catanzaro”, all’alba del 28 maggio, dovette obbedire alla tristissima necessità di ritirarsi, muovendosi per ultima col compito di proteggere gli altri reggimenti. I fieri e indomiti fanti della “Catanzaro” obbedirono con riluttanza e grande sconforto all’ordine di abbandonare rapidamente la cima del Mosciagh, conquistata con tanto sangue e dove in quaranta ore di battaglia avevano lasciato oltre cento morti. I compagni in ritirata passarono davanti alle salme dei loro compagni in silenzio, addolorati di non poter dare loro sepoltura. I superstiti della “Catanzaro” ricevettero presto l’ordine di accorrere, in tutta urgenza, lungo la linea dal Cengio a Magnaboschi dove per giorni lottarono accanitamente insieme ai Granatieri per respingere i nemici, ormai giunti nel loro supremo sforzo in vista della pianura vicentina.

L’esaltazione, le ricompense e l’oblio

Quel furibondo combattimento in cima al Mosciagh nella notte tra il 27 ed il 28 maggio 1916 ebbe enorme risonanza in Italia e in tutte le nazioni alleate perché fu la prima azione italiana vittoriosa dopo due settimane di tracolli e coincise con la svolta fondamentale che portò al fallimento l’offensiva austriaca del maggio 1916.

All’indomani il generale Lequio, comandante le truppe dell’Altipiano, comunicò ai suoi soldati che la brillante azione sul Mosciagh doveva aprire il cuore a tutti, perché il nemico, reso baldanzoso dai precedenti successi, era stato ributtato con slancio e valore e aveva compreso che il soldato italiano sapeva stargli di fronte e sapeva vincerlo.

Il generale Cadorna, capo di stato maggiore del Regio Esercito, scrisse che tra il 27 e il 28 di maggio gli parve “a un tratto, che fosse finita per gli Austriaci l’avanzata irresistibile, quella che ogni giorno ci apriva una ferita di più nella carne” ed esaltò il “brillante contrattacco delle valorose fanterie del 141° Reggimento (Brigata Catanzaro) sul Monte Mosciagh” nel bollettino di guerra del 29 maggio 1916, che tutti i giornali riportarono in prima pagina con un grande effetto sul morale nell’intero Paese trepidante.

La medaglia d’oro al valor militare fu presto concessa alla bandiera del 141° fanteria, che fu uno dei soli 9 reggimenti, tra i 246 di fanteria italiani, a riceverla nel corso della guerra. Dall’episodio del Mosciagh derivò il glorioso motto del 141°: “Su monte Mosciagh la baionetta ricuperò il cannone”.

La medaglia d’argento al valor militare fu conferita al sottotenente Zamboni, il quale ricevette inoltre la massima ricompensa al valore dagli alleati Francesi, che guardavano con apprensione ai gravi rovesci subiti dagli Italiani perché temevano che una sconfitta dell’Italia avrebbe permesso agli eserciti imperiali di concentrarsi sul fronte di Verdun, dove era in corso con esito incerto la grande battaglia vitale per la Francia. Per questo il maresciallo Pétain citò il tenente Zamboni all’Ordre de l’Armée e il Presidente della Repubblica francese gli consegnò, alla presenza del Re d’Italia, la più alta decorazione francese: la Croix de guerre avec palme, di cui fu insignito anche il maggiore Francesco Baracca, asso dell’aviazione italiana.

Il fatto d’arme del Mosciagh divenne famoso anche in campo avversario, perché aprì la via per Asiago. Per questo il tenente Skulski, che comandava il reparto del 73° reggimento di fanteria dell’Egerland scontratosi sul Mosciagh con la compagnia del tenente Zamboni, ricevette la Ritterkreuz dell’Ordine Militare di Maria Teresa, massima decorazione dell’imperiale e regio esercito austroungarico, di cui furono conferiti solo 110 esemplari.

La laurea e dopo la guerra

Adolfo Zamboni venne ricoverato in ospedale a Vicenza e poi a Padova, dove trovò in sé tanta calma e serenità di spirito da meditare sulla Divina Commedia, suo prediletto viatico in guerra, conseguendo la laurea con lode in Lettere il 30 giugno 1916.

Ai superiori che lo volevano nominare ufficiale addetto a un alto comando, dove avrebbe potuto evitare i pericoli continuamente incombenti della prima linea, egli rispose che preferiva rimanere col 141° reggimento, di cui conosceva tutta intera la storia e tutti i dolori, da lui intimamente vissuti. Ansioso di tornare alla testa dei suoi soldati nella nuova imminente offensiva sul Carso, non lasciò nemmeno trascorrere intera la licenza di convalescenza e con le ferite ancora non ben rimarginate raggiunse il suo reggimento giusto in tempo per prender parte alla battaglia per la conquista di Gorizia, distinguendosi il 6 agosto 1916 nella presa del munitissimo Monte San Michele, dove meritò la seconda medaglia d’argento. La terza gli venne assegnata per le azioni contro le fortificazioni sull’Hermada nell’agosto 1917. Lo stesso anno fu promosso tenente per merito eccezionale di guerra. Dopo la Grande Guerra lo Zamboni fu nominato Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia per benemerenze di guerra e iscritto nell’Albo d’Oro dei grandi decorati del Nastro Azzurro.

Promosso capitano e invitato dai suoi superiori ad abbracciare la carriera militare, egli, che come tanti soldati di ogni tempo e di ogni nazione aveva fatto la guerra col vivo desiderio della pace e del ritorno a casa, preferì dedicarsi alla missione dell’insegnamento, verso cui era spinto da una vera vocazione. Ma presto l’imperativo categorico della coscienza impose al mite studioso di trasformarsi nell’indomabile oppositore alla dittatura durante tutto il ventennio, nel protettore dei perseguitati e nel magnifico capo della Resistenza padovana che, imprigionato per mesi a palazzo Giusti, seppe tener testa con incrollabile fierezza ai feroci torturatori della famigerata banda Carità al servizio della polizia di sicurezza nazista. Dopo la Liberazione gli venne affidato, come Provveditore agli Studi, l’arduo compito di ricostruire fisicamente e moralmente la disastrata Scuola padovana.

La vecchia brigata del Carso entrò vittoriosa a Trieste nel novembre 1918. Il bel Reggimento, che era restato a presidiare quella città che era stata meta agognata dei suoi cruenti assalti, venne sciolto il 21 giugno 1920 e la sua gloriosa bandiera di guerra, adorna del più alto segno del valor militare, dopo essere stata baciata a uno a uno dai fanti con le lacrime agli occhi, fu esposta nel Sacrario delle Bandiere, accanto al Milite Ignoto, presso l’Altare della Patria a Roma, dove è custodita.

Le molte gesta della "Catanzaro", che nel corso della guerra aveva avuto 2.468 morti, 12.867 feriti e 2.203 dispersi, finirono ingiustamente nell’oblio perché il 16 luglio 1917, mentre erano nelle retrovie, alcuni suoi reparti, logorati per l’eccessivo sfruttamento, furono protagonisti della più grave rivolta armata nell’Esercito italiano, subito repressa e punita con la decimazione mediante fucilazione. Solo nel 2005 un cippo fu eretto sulla cima del Mosciagh, dove ora passa il Sentiero della Pace, per ricordare il sacrificio della brigata Catanzaro, che frenando l’impeto nemico salvò il buon nome e le fortune della Patria.

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