Uno dei documenti all'interno del museo ebraico di Padova. Foto: Massimo Pistore
Fino a qualche decennio fa lo spazio antico e prezioso dell’ex sinagoga tedesca di Padova non era che una servitù di locali adibiti a garage. Nonostante questo, fino ai primi anni Cinquanta un meraviglioso armadio sacro, un Aròn Haqòdesh, era ancora inserito in una nicchia al centro della sala; per salvarlo dal degrado non rimase che portarlo via, in Israele. A ricordarne la ricchezza perduta rimane una foto, a grandezza naturale, proiettata sulla stessa nicchia di quello che oggi è il nuovo Museo della Padova Ebraica.
Il museo è infatti ospitato nell’edificio della vecchia sinagoga, restaurato dalla comunità ebraica negli anni Novanta e restituito alla città come luogo di cultura e non più di culto. Un edificio dalla storia lunga e travagliata, iniziata nel 1682 e proseguita sempre al centro della vita della comunità anche dopo l’abbattimento delle porte del Ghetto; un luogo che ha celebrato gli anni d’oro dell’ebraismo padovano nel primo decennio del Novecento e che ha resistito al tentativo d’incendio da parte dei fascisti negli anni Venti, per poi crollare nel successivo attentato incendiario, andato purtroppo a segno nel 1943. Una storia difficile, luminosa e buia a tratti, come quello della comunità ebraica padovana, degli uomini e delle donne che hanno fatto la storia di quegli 8.000 metri quadrati di strade, scale e palazzi, ma anche di una nazione, e di un popolo.
Nel nuovo museo questa storia viene narrata attraverso i documenti, le foto, i biglietti augurali, gli spartiti musicali, e con ancora più forza grazie agli oggetti della tradizione che per secoli hanno accompagnato i riti sacri nella sinagoga e le preghiere domestiche. Si perpetua la tradizione delle case ebraiche illuminate dalla lampada a nove braccia durante la Chanukkà, dei vassoi d’argento per portare il cedro durante la festa di Sukkot, dell contenitore che custodisce i buoni auspici per il bambino neonato, il Shadday. Sui rotoli di Esther sono posate le Yad, puntatori come manine d’argento che aiutano la lettura a voce alta, a testimoniare una tradizione di condivisione orale; un tipo di trasmissione che si applica anche alla lettura dei rotoli della Torah, i cui ideali, per essere applicati concretamente, devono essere anche commentati.
Sono questi ultimi testi a dominare la grande sala che ospita il museo, impreziositi dall’argento delle loro medaglie, dei puntali decorativi e delle corone, le ‘Atarah. Al centro troneggia l’oggetto più prezioso e antico: la Parokhet di manifattura mamelucca egiziana, risalente al XV secolo e già esposta a New York, Istanbul e Venezia, che è forse il più antico esempio di tappeto a nicchia noto con disegno di tipo architettonico.
Il Parokhet e gli altri pezzi esposti sono custoditi in teche che per cicli di cinquanta minuti s’illuminano, immergendo il resto della sala nel buio; la parete che ospita i matronei ora chiusi si fa schermo di una suggestiva videoinstallazione che presenta dieci delle figure più rappresentative della comunità ebraica padovana, come il fondatore dell’accademia talmudica Yehuda Mintz, il senatore e sindaco di Padova Giacomo Levi Civita (1846-1922), e il rettore dell’università di Padova (fra il 1905 e il 1910) Vittorio Polacco. Le persone, la musica e le immagini dei luoghi della Padova ebraica si fondono allo spazio del museo, lo trasformano in una scatola d’immersione nel tempo che procede a sbalzi, intrecciandosi, senza seguire una linea, perché il tempo diviene un altro unico preziosissimo oggetto da tramandare.
È in questi termini che ne parla il rabbino Adolfo Aron Locci, rispondendo a chi gli chiede il perché di questo altro museo sull’ebraismo, che non è l’unico in Italia e che si deve anzi confrontare da vicino anche con quello di Venezia. “Abbiamo realizzato questo museo per mostrare non solo una storia che ci fa orgoglio, ma anche per dimostrare la vitalità, l’esistenza e la sussistenza della comunità ebraica padovana. Rappresenta un passato glorioso che abbiamo ereditato e che vogliamo trasmettere verso il futuro, rispettando una catena che si è cercato di non interrompere mai”. È il dovere di tramandare e di ricordare un passato importante per la città. Ed è allo stesso tempo la necessità di affermarsi, di essere e di esserci, adesso, a Padova.
Chiara Mezzalira