SOCIETÀ

Nomi africani e asiatici poco presenti nei media USA

Nel suo contributo al volume collettivo A come animale. Voci per un bestiario dei sentimenti, lo scrittore vicentino Marco Mancassola ripercorre il momento in cui Adamo dà il nome agli animali e lo rilegge come un’imposizione. “Essere nominati significa già inevitabilmente essere dominati”, scrive sottolineando la natura violenta dell’atto del primo uomo. Quei nomi, infatti, continueranno a dire qualcosa a chi li incontra indipendentemente dalla volontà di chi li porta. Anzi, suo malgrado.

La frase di Mancassola viene alla mente leggendo i risultati di uno studio condotto da un team di ricerca guidata da un ricercatore della Northwestern University negli Stati Uniti. Analizzando 223.587 notizie pubblicate dal 2011 al 2019 da 288 media statunitensi, Hao Peng e il resto del gruppo hanno potuto mostrare che ricercatori e ricercatrici con nomi che permettevano di dedurre un’ascendenza etnica diversa da quella anglosassone hanno una minor probabilità di essere citati negli articoli. In altre parole, per chi fa ricerca - almeno negli Stati Uniti - portare un nome che non faccia subito pensare che si tratti di una persona anglosassone significa avere più chance di essere ignorati dalla stampa.

Apparire conta come non mai

Uno dei presupposti da cui sono partiti Hao Peng, Misha Teplitskiy e David Jurgens è che mai come nel mondo della ricerca contemporaneo non essere presente sui media può essere un problema per la carriera della singola persona, ma anche per l’ente o l’università per cui lavora. Si tratta del meccanismo del prestigio, ormai ben noto e studiato dalla sociologia della scienza, che è diventato sempre più importante anche per fare carriera. Pubblicare i propri lavori su riviste di alto profilo aumenta il proprio prestigio, lavorare per un’università importante aumenta il proprio prestigio, ma anche il fatto che il proprio nome appaia sulla stampa generalista è un meccanismo importante in questo senso.

Lo studio dei tre ricercatori ha mostrato un chiaro effetto sulla possibilità di essere oggetto di una notizia giornalistica della presunta etnia dedotta dal nome. Persone con nomi cinesi o africani sono quelle che hanno sofferto maggiormente di questo bias, ma come si vede dal grafico colpisce in maniera più o meno consistente molte aree del globo.

 

Raccontando in prima persona la ricerca su The Conversation, Hao Peng scrive che “la probabilità complessiva che uno scienziato venga citato per nome in una notizia è pari al 40%. Gli autori con nomi identificabili con minoranze etniche, tuttavia, hanno una probabilità significativamente inferiore di essere menzionati rispetto agli autori con nomi anglosassoni. La disparità è più pronunciata per gli autori con nomi dell’Asia orientale e africani; mediamente sono stati menzionati o citati circa il 15% in meno nei media scientifici statunitensi rispetto a quelli con nomi anglosassoni”.

"La disparità è più pronunciata per gli autori con nomi dell’Asia orientale e africani; mediamente sono stati menzionati o citati circa il 15% in meno nei media scientifici statunitensi rispetto a quelli con nomi anglosassoni” Hao Peng

Ma come mai le persone che non hanno un nome chiaramente anglosassone sono discriminate? Si tratta di una forma di razzismo? Peng e colleghi non lo escludono, ma nemmeno lo possono affermare. Una delle ipotesi che formulano è che per i giornalisti e le giornaliste americane il nome non anglosassone susciti il sospetto che non sarebbe per loro facile intervistarli per via di una presunta difficoltà linguistica. Non possiamo escluderlo, ma d’altronde ci sono anche molti paesi non anglosassoni, soprattutto ex colonie britanniche, dove la maggior parte delle persone parla molto bene l’inglese, e lo stesso si può dire per moltissime persone di altri paesi.

In ogni caso, Peng, Teplitskiy e Jurgens hanno cercato di minimizzare questo effetto nella loro ricerca. In un secondo giro di analisi, infatti, hanno ristretto il campo alle sole notizie scientifiche che si basavano su paper prodotti da ricercatori e ricercatrici affiliate a enti americani. Anche in questo caso, però, l’effetto è solo “leggermente ridotto”. Scrive sempre Peng: “gli autori con nomi dell'Asia orientale e africani registrano ancora una volta un calo di 4-5 punti percentuali nei tassi di menzione rispetto ai loro colleghi con nomi anglosassoni”. La sua conclusione è che l’aspetto pragmatico, cioè le supposte difficoltà linguistiche per un’intervista, “possono spiegare alcune disparità, ma non tutte”. Questo non fa altro che rafforzare il sospetto che una qualche forma di pregiudizio razziale possa giocare un ruolo tutt’altro che secondario nello spiegare i dati di Peng e colleghi. Un effetto, si potrebbe dire, di quel dominio di cui Mancassola parlava nella sua descrizione dell’imposizione dei nomi.

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