SCIENZA E RICERCA

Psichedelici in psichiatria? “Primum non nŏcēre”

L’Oregon è il primo Stato al mondo ad aver programmato, pochi mesi fa, l’istituzione di un quadro normativo per l’uso terapeutico della psilocibina, il composto psicoattivo dei cosiddetti “funghi magici”. Il suo utilizzo, riporta Scientific American, sarà rigidamente regolamentato, poiché solo terapisti e produttori autorizzati potranno coltivare i funghi o estrarne la psilocibina, oppure produrre sinteticamente il farmaco o prescrivere la terapia. Il prodotto non sarà venduto a scopo ricreativo e le persone dovranno avere più di 21 anni per ricevere il farmaco. Potranno assumerlo solo in una struttura autorizzata con un terapista certificato presente. E l'Oregon non aprirà comunque alcun centro legale di terapia con psilocibina prima del 2023, dato che si rende necessaria una consultazione con i legislatori.

Da qualche decennio da parte degli scienziati è aumentato l’interesse per l’impiego dei cosiddetti psichedelici, sostanze come la psilocibina, la dietilamide dell'acido lisergico (LSD) e l'MDMA (o ecstasy), per il potenziale trattamento di disturbi mentali – quali la depressione maggiore o resistente ai farmaci, l’anoressia nervosa, il disturbo da stress post-traumatico – generalmente sotto la stretta guida di uno psichiatra o psicoterapeuta. Così, si legge su Nature che all’argomento dedica un corposo articolo cui qui ci riferiremo, istituzioni come l’Imperial College di Londra, la Johns Hopkins University di Baltimora, la University of California e la Icahn School of Medicine del Mount Sinai a New York City hanno avviato centri di ricerca dedicati proprio allo studio delle sostanze psichedeliche.

L'idea esiste da decenni, addirittura da secoli in alcune culture. Negli anni Cinquanta e Sessanta furono pubblicati più di un migliaio di articoli sull’uso delle sostanze psichedeliche e i farmaci furono testati complessivamente su circa 40.000 persone. Durante gli anni Sessanta la proliferazione dell’uso non autorizzato di psichedelici portò a limitazioni sempre più severe alla ricerca medica e psichiatrica, specie quando tali sostanze furono inserite nella categoria “Schedule I”, la più restrittiva, dalla Drug Enforcement Administration degli Stati Uniti e in categorie equivalenti in molti altri Paesi, rendendoli a tutti gli effetti illegali da utilizzare. Solo negli anni Novanta, con lo sviluppo delle moderne tecniche di neuroimaging, come la tomografia a emissione di positroni, gli scienziati hanno ripreso a indagare come funzionano gli psichedelici sul cervello, con un rinnovato interesse per l’argomento. Le sostanze psichedeliche agiscono principalmente attraverso l'attivazione del recettore 5-idrossitriptamina (serotonina) di tipo 2A (5-HT2A) e modulano i circuiti neurali coinvolti nei disturbi dell'umore e affettivi. Alcuni studi suggerirebbero inoltre che le sostanze psichedeliche aumentano la neuroplasticità mediata dal glutammato negli animali e altri, ancora tuttavia in numero esiguo, sostengono che lo stesso potrebbe avvenire nell’uomo.

Molti ricercatori, riporta Nature, sembrano essere entusiasti di questo nuovo approccio e diverse ricerche parrebbero mostrare risultati positivi. Ne è esempio uno studio clinico randomizzato condotto su 24 pazienti con depressione maggiore,  pubblicato pochi mesi fa su Jama e coordinato da Alan K. Davis del Center for Psychedelic and Consciousness Research della Johns Hopkins School of Medicine di Baltimora. Ebbene, l’indagine conclude che la terapia assistita con psilocibina avrebbe effetti antidepressivi “rapidi e duraturi”: alla quarta settimana il 71% dei partecipanti ha avuto una “risposta clinicamente significativa all’intervento” e il 54% era in fase di remissione. Gli effetti antidepressivi sembrano essere simili a quelli riportati con la ketamina – un crescente numero di studi infatti suggerirebbe l’efficacia di questa sostanza in tal senso –, ma gli effetti terapeutici si rivelano diversi: gli effetti della ketamina in genere durano da pochi giorni a due settimane, mentre l'attuale studio dimostra che la risposta antidepressiva alla terapia con psilocibina persiste almeno per quattro settimane. Secondo alcuni studi, la psilocibina parrebbe avere inoltre un basso potenziale di dipendenza e un profilo di eventi avversi minimo che suggerisce vantaggi terapeutici con un rischio minore di problemi associati rispetto alla ketamina.

Il sostanziale impatto negativo sulla salute pubblica della depressione maggiore – osservano gli autori nel paper – sottolinea l'importanza di condurre più ricerche sui farmaci con effetti antidepressivi rapidi e prolungati. Le attuali farmacoterapie per la depressione hanno un'efficacia variabile ed effetti avversi indesiderati. Nuovi antidepressivi con effetti rapidi e prolungati sull'umore e sulla cognizione potrebbero rappresentare una svolta nel trattamento della depressione e potrebbero potenzialmente migliorare o salvare vite umane”. La depressione maggiore è un problema di salute pubblica, che colpisce più di 300 milioni di persone in tutto il mondo ed è la prima causa di disabilità. Attualmente sono disponibili farmaci efficaci per la depressione, scrivono i ricercatori, ma hanno un'efficacia limitata e producono effetti collaterali. Sebbene molti pazienti con depressione abbiano mostrato sintomi ridotti o regrediti dopo il trattamento con i medicinali esistenti, dal 30% al 50% circa dei pazienti non ha risposto completamente alla terapia e dal 10% al 30% dei soggetti è stato considerato resistente al trattamento.  

Oltre a questo studio, tra gli ultimi in ordine di tempo, vanno citate anche le indagini coordinate da Carhart-Harris, direttore del Centre for Psychedelic Research dell’Imperial College, e da Stephen Ross che pure hanno approfondito l’impiego della psilocibina nella cura della depressione; si ricordano poi le ricerche condotte da Charles S. Grob e il suo gruppo sui potenziali benefici terapeutici di questa sostanza nel trattamento dell'ansia in pazienti malati di tumore. Ancora, Roland R. Griffiths, direttore del Johns Hopkins Center for Psychedelic and Consciousness Research, e colleghi hanno rilevato che, nei pazienti con una diagnosi terminale di cancro e sintomi di ansia e depressione, la psilocibina ad alto dosaggio (22 o 30 mg / 70 kg) avrebbe prodotto una significativa diminuzione dell'umore depresso e dell'ansia: a 6 mesi di follow-up, circa l'80% dei partecipanti ha continuato a mostrare diminuzioni clinicamente significative dell'umore depresso e dell'ansia.

Questi potenziali nuovi trattamenti pongono però ancora questioni da risolvere. La maggior parte dei farmaci attualmente in uso per la cura dell’ansia e della depressione, per esempio, possono essere facilmente acquistati in farmacia e assunti in autonomia dal paziente. I nuovi approcci, invece, utilizzano sostanze che vengono somministrate sotto stretta sorveglianza di uno psicoterapeuta qualificato e dunque gli enti regolatori e gli operatori sanitari dovranno definire come svilupparli in sicurezza. Bertha Madras, psicobiologa della Harvard Medical School, ha dichiarato a Nature, inoltre, che gli studi clinici sulla depressione sono stati condotti in condizioni altamente circoscritte e controllate e questo può rendere difficile l’interpretazione dei risultati: la terapia potrebbe mostrare benefici proprio perché l’intervento è attentamente coordinato e tutti sono ben formati. Madras osserva, inoltre, che molti studi reclutano persone che hanno avuto precedenti esperienze di assunzione di sostanze psichedeliche e dunque potrebbero essere più propense a dare riscontri positivi in merito. Non mancano poi nemmeno i rischi. Sebbene in casi molto rari, le sostanze come psilocibina e LSD possono determinare una reazione psicotica duratura, specie nei pazienti con storia familiare di psicosi. L’MDMA, inoltre, deriva dall’anfetamina e potrebbe provocare rischi di abuso.  

Robert Malenka, psichiatra e neuroscienziato alla Stanford University in California, che ha studiato gli effetti dell'MDMA sui roditori, ritiene che alcuni farmaci psichedelici potrebbero ottenere l’approvazione come trattamenti per determinate condizioni ed entrare a far parte degli attrezzi del mestiere, ma al tempo stesso mette in guarda da eccessivi entusiasmi: “Non credo che saranno cure miracolose”, dichiara a Nature. Malenka ritiene che ci sia bisogno di capire meglio come questo tipo di sostanze agiscano sul cervello e, nel contempo, che potrebbe rivelarsi utile a lungo termine studiare altri composti che forniscano gli stessi benefici senza effetti allucinatori.

Guarda l'intervista completa allo psichiatra Fabrizio Schifano. Montaggio di Elisa Speronello

Dell’argomento Il Bo Live ha parlato con Fabrizio Schifano, psichiatra, docente di farmacologia clinica presso la University of Hertfordshire nel Regno Unito e membro del Scientific Advisory Group on Psychiatry dell’European Medicine Agency (Ema). “Da qualche anno a questa parte in psichiatria si stanno cercando nuove vie per risolvere alcuni problemi che anche noi psichiatri incontriamo nell’affrontare patologie come la depressione resistente oppure il disturbo post traumatico da stress, o i disturbi dello spettro autistico”. Il docente spiega che i soggetti con depressione resistente ai farmaci, per esempio, mancano di un sufficiente apporto dopaminergico che attivi i circuiti del piacere e della gratificazione: l’idea dunque è di andare a incrementare i livelli di dopamina, in maniera diretta o indiretta, magari con l’uso di anfetaminosimili come l’ecstasy o con anfetamine vere e proprie o con il metilfenidato, utilizzato in alcuni Paesi per il disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD), oppure con gli psichedelici che lavorano sui recettori 5-HT2A.

Secondo Schifano dal punto di vista teorico l’ipotesi è di interesse, ma pone dei problemi. “In primo luogo le terapie psichedeliche presentano dei rischi dal punto di vista psicopatologico, dato che alcuni pazienti a cui vengono somministrati LSD o psilocibina, oppure MDMA, possono sviluppare ansia, depressione e, nei soggetti più vulnerabili, episodi psicotici. Alcuni altri soggetti, che fanno una o poche assunzioni di psichedelici, per esempio ancora LSD o MDMA, possono sviluppare per molti anni un disturbo post allucinatorio persistente, che è molto difficile da trattare e molto complesso dal punto di vista neurobiologico”. Il docente osserva inoltre che, al di là della contingenza terapeutica, è fondamentale risolvere il problema che sta alla base del disturbo. “Si deve tener conto, inoltre, che la maggior parte degli studi sulle terapie psichedeliche in psichiatria – continua Schifano – sono stati svolti in ambienti molto controllati, in cui viene somministrata una concentrazione specifica del prodotto con l’ausilio di un terapeuta adeguatamente formato, in grado di affrontare non solo il problema dell’uso di sostanze ma anche delle problematiche psicotiche acute che ne potrebbero derivare”. E infine, osserva Schifano, le agenzie regolatorie hanno bisogno di tempo: “Si immagini quanto complessa potrebbe essere l’approvazione di una molecola come l’MDMA ecstasy o la psilocibina o LSD per il trattamento clinico nell’ambito ambulatoriale”.

Fabrizio Schifano si occupa in particolare di sostanze d’abuso, degli aspetti clinici delle tossicodipendenze e di tipo farmacoepidemiologico e, anche in virtù della consuetudine che il docente ha con queste tematiche, afferma: “Non vedo il fascino dell’uso di sostanze nel mio lavoro clinico, ne osservo solo le conseguenze. D’altra parte, però, come psichiatra clinico mi rendo conto che vorrei aiutare di più moltissimi dei miei pazienti”. Secondo il docente le terapie psichedeliche in psichiatria, se in futuro esisterà questa possibilità, saranno solo un piccolo "addendum", un trattamento che potrebbe essere effettuato in ambienti estremamente specialistici da personale altamente qualificato. “Personalmente, sono poco attratto da questa ipotesi, perché ne osservo le conseguenze e vedo un meccanismo di azione poco chiaro. Dobbiamo sempre tenere ben presente un concetto: “primum non nŏcēre”. Per prima cosa non dobbiamo danneggiare ulteriormente il paziente”.

E conclude Schifano: “Esiste di sicuro una componente della psichiatria internazionale, anche se in questo momento minoritaria, che insiste molto per uno studio ulteriore delle terapie psichedeliche. Io, personalmente, nutro forti perplessità e preferirei seguire altre vie. C’è, per esempio, un farmaco psicoattivo che sta dando grandi risultati e che, secondo me, dal punto di vista psicofarmacologico è più interessante per il trattamento di alcune psicologie psichiatriche: si tratta del cannabidiolo, una componente della marijuana, che fa notare dei miglioramenti in alcune patologie come l’ansia, in parte la depressione e l’insonnia. E soprattutto si ha la netta sensazione che con il cannabidiolo non si vada ad impattare sul problema della psicosi, dato che pare abbia addirittura attività antipsicotiche”. Il docente ragiona poi su un altro possibile approccio e cioè sull’impiego degli antagonisti dei recettori K degli oppioidi (per esempio la salvinorina A, un composto presente nella salvia divinorum, funziona da agonista di tali recettori e non dà né dipendenza né tolleranza).

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