"Section of chemical laboratory." The New York Public Library Digital Collections. 1860 - 1920.
Ulrike Felt lo ha ricordato due anni fa, intervistata da il BoLive: «Ogni nuova conoscenza e tecnologia contiene un'idea di società e della direzione in cui dovrebbe svilupparsi». Le parole della sociologa della scienza dell'università di Vienna tornano di attualità in queste settimane in cui l’Italia ha cominciato a organizzare un primo piano per l’impiego del recovery fund messi a disposizione dall’Europa per fronteggiare le conseguenze sull’economia e la società della crisi del coronavirus.
Ricerca e sviluppo, parole da anni ripetute come mantra per uscire da tutti i pantani in cui il paese si è infilato, sono state pronunciate anche dal premier Giuseppe Conte durante il suo discorso di chiusura dello European Open Science Forum - ESOF - tenutosi a Trieste. Con il recovery fund il governo punta a garantire «opportunità di investimenti strutturali e adeguati nella ricerca, a fronte di un passato, in particolare in Italia, che ha registrato misure perlopiù disorganiche, occasionali», ha dichiarato.
La partita è tutta da giocare da qui ad aprile, quando l’Italia dovrà presentare il piano dettagliato di come impiegherà i fondi e i prestiti. Ma come ci arriva? Si è largamente parlato degli effetti negativi sull’economia, soprattutto per quelle più fragili, della pandemia. Lo ricordava già a marzo scorso, in pieno lockdown, un rapporto dell’OCSE ripreso anche su queste pagine. Alcuni osservatori, come per esempio l’ex direttore della Banca Centrale Europea Mario Draghi, sperano che anche questa non si riveli un’occasione sprecata. Perché negli ultimi anni la spesa in ricerca e sviluppo italiana è stata largamente trainata dalle imprese, e in generale dal settore privato, nel contesto di quella che si chiama ricerca intra muros, ossia quella fatta in ambito aziendale con personale dell’impresa stessa. Per intenderci, da questo è esclusa la ricerca finanziata dalle imprese alle università o ai centri di ricerca, per esempio e ovviamente tutta la ricerca pubblica.
Lo certifica l’ultimo report statistico su Ricerca e sviluppo in Italia pubblicato il 21 settembre scorso dall’ISTAT. Si tratta di una indagine effettuata coinvolgendo tutte le imprese che potenzialmente sono produttrici di ricerca e sviluppo (R&S). Per il 2020, si tratta di oltre 37mila imprese. Al questionario hanno risposto più di 23.700 aziende, quindi il 64% circa, e di queste oltre 15.700 hanno effettivamente confermato di fare attività di ricerca e sviluppo a diverso titolo. Questi dati, gli ultimi disponibili e relativi al 2018, indicano nel 63,1% della spesa complessiva la fetta dovuta agli investimenti di imprese e dal no profit privato, insomma quasi i due terzi della spesa complessiva. Si tratta di poco meno di 16 miliardi di euro su di un totale di 25 miliardi speso.
Non è una novità. Andando a ritroso grazie ai dati ISTAT, si può notare come già nel 2012 il settore privato costituisse oltre il 57% della spesa in ricerca e sviluppo e come negli anni successivi questa fetta si sia allargata fino a oltre il 63%. Il rimanente 37% circa è in gran parte spesa pubblica, un 10% di fondi esteri e una minuscola componente no profit. Giusto per essere chiari, il settore no profit è talvolta essenziale nel sostegno alla ricerca di alcuni settori molto specifici, come ad esempio quelli in alcuni ambiti biomedici, come la ricerca sulle malattie genetiche rare, sulla malattia di Alzheimer, sul cancro. E lo è ancor più in termini culturali, dato che fa un enorme lavoro di informazione e promozione di interesse pubblico su questi argomenti. Ma in termini complessivi, se guardiamo al totale dei finanziamenti alla ricerca, il mondo no profit rimane marginale ed è addirittura in contrazione da diversi anni.
I 15,9 miliardi spesi dalle imprese corrispondono allo 0,9% del PIL. Nel 2018 la spesa rispetto all’anno precedente è cresciuta un po’ in tutti i settori, tranne nel no profit.
Se guardiamo alle fonti di finanziamento, le imprese contribuiscono in gran parte con autofinanziamento (pari a oltre l’80% del totale della spesa) ma ricevono anche contributi pubblici, che sono cresciuti dal 3,5% del 2017 a quasi il 5% nel 2018. C’è poi una quota di finanziamento estero, attorno all’11%, che viene ad esempio dalla partecipazione delle imprese stesse ai bandi europei.
Effetto pandemia: attesa una contrazione del 5%
Su questa situazione pende la spada di Damocle dell’effetto della pandemia. Secondo i dati preliminari (da confermare) di ISTAT, il 2019 dovrebbe essere ancora un anno di crescita della spesa per tutti i settori: +7,6% per il non profit, +4,3% per le istituzioni pubbliche e +1,9% per le imprese.
Discorso diverso per il 2020. L’anno ancora in corso potrebbe portare con sé un brusco rallentamento della spesa, soprattutto per imprese: -4,7% atteso rispetto al 2019, - 1,9% rispetto al 2018. E qui che entra ancora di più in gioco il peso che il Recovery Fund, tra tutte le iniziative, avrà negli anni a venire.
Ancora lontani dall’obiettivo del 3%
La prevista contrazione della spesa renderà ancora più difficile il già complicato obiettivo fissato dall’Unione Europea di spendere in ricerca e sviluppo il 3% del prodotto interno lordo per il 2020 nella sua strategia per la crescita e il lavoro. Un dato già raggiunto da Germania, Danimarca, Austria e Svezia, ad esempio. Ma ben lontano per altri paesi dell’Unione, che in ben più di un caso non arrivano nemmeno all’1%. Due anni fa l’Europa a 28 si fermava ben al di sotto, appena oltre il 2%. Un dato che va contestualizzato nel contesto mondiale: secondo i dati Eurostat, infatti, gli Stati Uniti spendono stabilmente attorno al 2,8% da molti anni, il Giappone è al 3,2%, ma i due paesi a cui guardare sono la Cina, che è passata da 1,78% a 2,15% tra il 2011 e il 2018, e soprattutto la Corea del Sud, che arriva ormai al 4,3%. Questi dati vanno naturalmente letti pensando anche a come cresce il PIL di questi due paesi, per cui nei fatti la spesa cinese, ad esempio, è più che triplicata.
Il divario che la strategia Europa 2020 mirava non solo a colmare ma anche a superare è dunque invece rimasto tale e va, in realtà, allargandosi. Va forse però aggiunto che la strategia europea si differenzia dalle altre perché inserisce questo obiettivo all’interno di una visione più articolata, che vuole integrare la crescita con i valori di giustizia e inclusione sociale che sarebbero fondanti dell’Europa e in una chiave di sostenibilità non solo economica ma anche ambientale.
In realtà, ciascun paese europeo ha comunque stabilito delle soglie diverse, anche in base ai propri Piani di ricerca nazionali. Mentre Finlandia e Svezia, ad esempio, hanno obiettivi attorno al 4%, l’Italia si è sbilanciata molto poco, e si è data un obiettivo piuttosto contenuto, l’1,53%.
Al momento, il nostro paese nel suo insieme spende in R&S circa l’1,4% del PIL. Ma, come per l’intera Europa, non è una situazione omogenea sul territorio. I dati dell’ultimo report di ISTAT evidenziano una netta differenza tra alcune regioni, che spendono in ricerca e sviluppo anche molto di più della media europea. Queste regioni vengono controbilanciate dalla maggioranza in cui la spesa è nettamente inferiore.
Già commentando i dati dello scorso anno, Francesco Aiello, professore ordinario di Politica Economica presso l’Università della Calabria, scriveva sul sito di Open Calabria che “la distribuzione della spesa in R&S è fortemente concentrata in poche regioni”. Nel 2017, anno a cui si riferiscono i dati commentati da Aiello, in testa alla classifica assoluta della spesa c’era la Lombardia (4,9 miliardi di euro), seguita da Lazio, Emilia-Romagna, Piemonte e Veneto. “Queste regioni”, scriveva Aiello, “contribuiscono da sole al 68,1% degli investimenti italiani”.
Parametrando sul PIL i dati del 2018, emerge un quadro di un’Italia divisa nettamente a livello geografico tra un nord che investe e un sud dove l’investimento è più scarso.
Chi investe in ricerca e sviluppo?
Secondo i dati del documento “Ricerca, sviluppo e innovazione” pubblicato dal centro studi della Camera dei deputati a luglio di quest’anno, la spesa pubblica italiana per R&S «è in calo dal 2013, e nel 2018 ha raggiunto lo 0,5 % del PIL, il secondo livello più basso tra i paesi dell'UE-15».
Sul fronte delle imprese, diversamente, come appunto indicano anche i dati Istat, la spesa è in aumento negli ultimi anni arrivando al già citato 0,9% del PIL nel 2018. Ma questo dato è abbondantemente sotto quello della media europea, che nello stesso anno si attestava all’1,41%. Quindi, prosegue la stessa relazione, “il numero di ricercatori ogni mille persone attive occupate dalle imprese è pari solo alla metà della media UE”.
Un elemento di cui tenere conto è però che quello che aumenta non è tanto l’investimento totale in R&S delle imprese che già la fanno, che anzi rimane piuttosto stabile nel tempo. L’aumento è dovuto all’attività di nuove imprese. Da quanto emerge dall’analisi ISTAT, infatti, un ruolo consistente nell’aumento l’hanno giocato i nuovi soggetti, che contano per il 3,9% della spesa complessiva.
E dunque, è interessante andare a capire sia chi sono queste nuove imprese, in quali settori lavorano e come mai decidano di investire in ricerca e sviluppo.
Una questione di dimensioni…
Un primo elemento interessante del rapporto Istat 2020 è l’aumento chiaro della spesa nelle piccole imprese, quelle con meno di 50 addetti, che cresce quasi del 16%, e in quelle medie (50-249 addetti) che cresce quasi del 10%. Chiaramente il peso dell’investimento fatto dalle grandi imprese (più di 500 addetti) è percentualmente più corposo, ma il loro contributo tende a scendere di poco rispetto agli anni precedenti. Al crescere delle dimensioni dell’azienda, cresce anche la componente di finanziamento estero, che nelle imprese più grandi arriva a oltre il 16%.
… e di settori
La spesa in ricerca e sviluppo industriale è particolarmente forte nel settore manifatturiero, che occupa circa i due terzi del totale. Il solo settore di produzione macchinari, ad esempio, assorbe oltre il 12% della spesa complessiva. Seguono poi le produzioni di autoveicoli e di altri mezzi di trasporto, il settore dell’informatica e software e quello dell’elettronica. Dal punto di vista dei materiali, aumenta il comparto dei prodotti in metallo, l’industria del legno e la tessile, l’alimentare e l’industria della pelle. Crolla il settore metallurgico per quanto riguarda la produzione di minerali non metalliferi.
In termini della tipologia di ricerca e sviluppo finanziata, cala leggermente la ricerca di base (che ha invece un leggero aumento nel finanziamento pubblico), così come quella applicata. Aumentano invece nettamente gli investimenti in sviluppo sperimentale, ossia un lavoro maggiormente finalizzato allo sviluppo e miglioramento dei materiali, dei prodotti e dei processi produttivi che si basa sui risultati della ricerca di base e applicativa. Nel complesso queste attività arrivano, nel 2018, ad assorbire più della metà della spesa, in crescita netta rispetto all’anno precedente.
Visti questi dati e gli studi che li analizzano, ci sono due elementi almeno che possiamo indicare come determinanti nella scelta e indirizzo delle attività di ricerca e sviluppo: le scelte in termini di politica della ricerca prese a livello nazionale e regionale che individuano i meccanismi di incentivo e sostegno alla ricerca anche per le imprese, e le dinamiche e le realtà territoriali, come per esempio la costituzione di distretti industriali e tecnologici, che costituiscono importanti reti di supporto, collaborazione, indotto e perfino incentivo di mercato per le aziende.
Meccanismi di incentivo pubblico
Nel primo caso, dallo studio presentato alla Camera dei deputati vediamo che un forte indirizzo è già presente nel Programma nazionale della ricerca (PNR) 2015-2020, adottato con delibera CIPE nel 2016. Il PNR individua aree strategiche per tutto il comparto della ricerca, e in particolare per quanto riguarda il settore privato, si allinea con le aree di intervento già contenute nella strategia europea e quindi sostenute dal programma quadro di finanziamenti Horizon2020. Le cinque aree tematiche prioritarie sono:
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aerospazio e difesa;
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salute, alimentazione, qualità della vita;
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industria intelligente e sostenibile, energia e ambiente;
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turismo, patrimonio culturale e industria della creatività;
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agenda digitale, smart communities, infrastrutture e sistemi di mobilità intelligente.
All’interno di queste cinque macro-aree vengono poi indicate aree di specializzazione e priorità. Se Horizon2020 è ormai in chiusura, sappiamo che verrà presto lanciato Horizon Europe che dovrebbe contenere indicazioni importanti coerenti con la realizzazione del Green New Deal voluto dalla Commissione, con la Strategia dell’Europa Digitale ma, senz’altro, a questo punto, anche con il piano di rilancio post Covid.
Oltre alla partecipazione diretta ai bandi europei, le imprese italiane possono accedere sostanzialmente a diversi Fondi di finanziamento: i Fondi strutturali nazionali e regionali (PON e POR); quelli direttamente erogati dal MIUR e un Fondo per la crescita sostenibile (FCS) che è invece gestito dal Ministero per lo sviluppo economico. Si tratta di una combinazione, piuttosto articolata, di contributi diretti, fondi agevolati, recupero e riciclo di risorse stanziate ma non utilizzate. Una voce importante, almeno per alcune regioni, è poi quella costituita dagli stanziamenti delle regioni e province autonome che nel 2019 sono saliti quasi del 7%, passando da 9 a 9,6 miliardi di euro rispetto all’anno precedente.
Un altro meccanismo particolarmente efficace è quello degli incentivi fiscali. L’avvio nel 2016, ad esempio, di un piano per l’industria 4.0 con specifici meccanismi di sostegno fiscale per le aziende che avessero investito in quella direzione sembra essere alla base di una forte spinta in una parte delle aziende italiane verso l’automazione. Anche nella legge di bilancio 2020 sono stati inseriti specifici meccanismi di credito d'imposta per investimenti in ricerca e sviluppo, che possono ulteriormente costituire un incentivo alle imprese per innovare e proseguire nella direzione intrapresa. Nello specifico, nella legge di bilancio vengono particolarmente sottolineati i vantaggi in termini di credito di imposta per le imprese innovative che investono nei settori della cosiddetta industria 4.0 e nell’insieme delle tecnologie green.
Un altro elemento molto studiato e che può costituire un fattore di stimolo e di crescita dell’investimento in ricerca e sviluppo è quello della costituzione dei cosiddetti distretti industriali e dei poli tecnologici ad alto tasso di innovazione. Non è forse un caso che le regioni dove è più alta la spesa da parte delle aziende in ricerca e sviluppo siano anche quelle dove si trovano i poli industriali e tecnologici più avanzati: da quello della meccatronica al biomedicale in Emilia, per fare un esempio, ai distretti digitali che si trovano in Veneto e in Friuli Venezia Giulia, al sistema della ricerca e al parco tecnologico di Trieste e via dicendo.
Sostanzialmente, non è solo una questione di intuizione, visione futura, cultura dell’imprenditore. Le aziende grandi e piccole tendono a investire in ricerca e sviluppo anche quando il sistema e il tessuto in cui sono inserite le indirizza e le spinge in quella direzione. Sia con politiche di misure economiche e fiscali che promuovono le aziende più innovative sia attraverso la costruzione di filiere e di reti che funzionano bene, resistono alle crisi e rilanciano proprio grazie alla ricerca e all’innovazione di prodotti e di processi.