L’Italia è ormai al quattordicesimo posto nel mondo per investimenti in ricerca e sviluppo. Ma i ricercatori italiani sono molto produttivi e molto bravi. Uniscono la qualità alla quantità. Secondo i dati Scimago, sono ottavi per numero di articoli scientifici pubblicati (ci riferiamo all’anno 2018); quinti per numero di citazioni; addirittura primi insieme ai colleghi del Regno Unito per numero di citazioni per articolo (la classifica vale per i primi otto paesi produttori di articoli scientifici).
Molti si chiedono come sia possibile. Come mai gli italiani sono così laboriosi e così interessanti da essere citati da altri colleghi in media più degli altri?
Lo scorso mese di settembre tre ricercatori italiani – Alberto Baccini (ordinario di Statistica all’università di Siena) e Giuseppe De Nicolao (ordinario al dipartimento di Ingegneria industriale e dell'informazione dell’università di Pavia) ed Eugenio Petrovich (assegnista di ricerca al dipartimento di Economia politica dell’università di Siena) – hanno pubblicato sulla rivista Plos One un articolo rivelando, a loro dire, la causa di questa apparente anomalia italiana.
La tesi è che l’istituzione dell’Anvur (Agenzia Nazionale di Valutazione dell’Università e della Ricerca) ha alimentato la furbizia degli scienziati italiani che hanno iniziato ad autocitarsi per salire nelle classifiche internazionali e ottenere una valutazione migliore.
Apriti cielo. La tesi di Baccini, De Nicolao e Petrovich è stata contestata da molti ricercatori italiani e ripresa da riviste internazionali come Science. Oggi su Nature una nuova puntata della polemica: intervengono Paolo Miccoli e Raffaella Rumiati, rispettivamente presidente e vicepresidente dell’ANVUR per smentire solennemente la tesi Baccini, De Nicolao e Petrovich. Le valutazioni dell’Anvur, rigorosamente bibliometriche, possono aver stimolato la produttività dei ricercatori italiani, ma non la loro furbizia. I ricercatori italiani risultano bravi perché sono bravi non perché sono furbi.
Come stanno le cose? Non è facile rispondere. Anche perché molte sono in Italia e nel mondo le critiche verso un metodo di valutazione esclusivamente bibliometrico: ovvero quanti articoli pubblici e quante citazioni hai.
Tuttavia possiamo riportare dei dati, come quelli in tabella.
I dati sono tratti dal R&D Magazine per quanto riguarda gli investimenti in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico (R&S) e da Scimago, una banca dati che monitora la letteratura scientifica.
Con poco meno di 30 miliardi di dollari, l’Italia risulta al 14° posto al mondo per spesa assoluta in R&S. Preceduta da tutti i paesi in tabella, ma anche da Corea del Sud, Russia, Brasile, Canada, Australia e Taiwan. Detta in maniera molto semplice: investiamo poco in scienza e sviluppo tecnologico.
Con 102.581 articoli pubblicati, però, i nostri scienziati sono ottavi per numero di pubblicazioni. E addirittura quinti per numero assoluto di citazioni. E, infine, primi a pari merito con il Regno Unito per citazioni per articolo. Ogni articolo pubblicato da un italiano nel 2018 ha ottenuto 89 citazioni, un numero uguale a quello dei colleghi inglesi e superiore a quello dei colleghi tedeschi, francesi e USA. Per non parlare dei colleghi orientali, molto meno citati degli europei e dei nordamericani.
Se davvero le citazioni sono un indice di qualità, gli scienziati italiani sono tra i più bravi al mondo.
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Ebbene, secondo Baccini, De Nicolao e Petrovich questa performance è invece drogata dalla pratica dell’autocitazione, alimentata dalla richiesta dell’Anvur di brillare in queste particolari classifiche bibliometriche.
Diamo ancora uno sguardo alla nostra tabella, ultima colonna a destra. Vediamo che i campioni dell’autocitazione sono i cinesi: il 68,4% delle citazioni ottenute da un loro articolo nel 2018 era una citazione di sé stesso. Al secondo posto gli scienziati americani, con il 47,2% di autocitazioni. Gli scienziati europei si collocano in una fascia bassa e piuttosto ristretta: tra il 32 e il 37% (unica eccezione la Francia, con un numero di autocitazione pari al 28%).
Certo, l’Italia si colloca prima tra gli europei, con il 36,9% di autocitazioni. Ma il valore non è così drammaticamente più altro degli altri paesi del Vecchio Continente.
Non mancano le complicazioni, come le citazioni concordate: io cito te e poi tu citi me, in modo da ingannare i cacciatori di autocitazioni. Ma questa pratica è diffusa in tutto il mondo.
C’è anche chi sostiene che l’autocitazione è, in qualche modo, normale, perché ogni ricerca non è un fulmine a ciel sereno, ma la tappa di un percorso. Normale, dunque, che ci si autociti.
Ma non è questa la sede per indagare a fondo sul ruolo dell’autocitazione. Diciamo solo che la pratica in Italia è solo un po’ più diffusa che negli altri paesi europei e molto meno che nei paesi leader della ricerca a livello mondiale, gli Stati Uniti e la Cina.
In ogni caso non inficia in alcun modo la felice anomalia della scienza italiana. Che è altamente produttiva. La più produttiva al mondo (3,4 articoli per milione di dollari investiti) insieme al solito Regno Unito.
I motivi di queste performance andrebbero meglio indagati. Ma una cosa è certa: i ricercatori italiani sono pochi ma buoni.